FRONTIERE CRITICHE
Francesco D’Episcopo
Essere oggi critici, d’arte o di altre discipline, significa soprattutto confrontarsi con i testi e contesti, con gli autori, con la loro capacità di proporsi (o riproporsi) all’interno di spazi sempre più isolati e separati. Isole, che stentano, e talvolta non vogliono, diventare arcipelago. Lo stato della cultura appare sempre più segnato da personalismi spietati o da gruppi chiusi, sempre meno numerosi rispetto al passato, che ostentano una idolatra preservazione dei propri principi. Sembrano ormai tramontati i tempi epici di rivoluzionarie Scapigliature artistiche, letterarie, come quella che, nella prima metà del Novecento, costrinse artisti, scrittori a “discendere al Nord”, per usare una paradossale espressione di Salvatore Quasimodo, a incontrarsi, a frequentarsi, a scambiarsi esperienze per costruire una comune civiltà culturale, favorita peraltro anche dall’impegno concreto di illuminate strutture industriali: basti pensare, per tutte, a quella di Adriano Olivetti. Gli scrittori hanno così spesso avuto per maestri personalità in avanscoperta in ambiti diversi, destinati a dare un segno nuovo e radicale alla loro vita: un esempio per tutti, Alfonso Gatto, poeta, ed Edoardo Persico, architetto e teorico dell’architettura moderna, due meridionali strapiantati al Nord, costretti ad incontrarsi al Nord. Ma gli esempi potrebbero agevolmente moltiplicarsi ed investire la collaborazione, la simbiosi organicamente disorganica, ma metafisicamente produttiva, che si venne ad instaurare tra mondi solo apparentemente distanti e realmente protesi a condividere esperienze, estremamente creative e critiche, in ambito nazionale ed europeo ed internazionale in senso lato. Tutto nasceva da quel fare insieme, che si prestava solo in una fase successiva ad una teorizzazione sul sistema delle arti, e questo consentiva di abbattere steccati, divisioni, ad esempio, tra la stessa critica accademica e militante, favorendo incontri e innesti determinanti per la storia non solo dell’arte, ma delle culture in senso lato.
La situazione appare oggi molto più disgregata e, talvolta, addirittura polverizzata, personalistica, come si è detto, o ossessivamente raggruppata in circoli non sempre contestualizzati con la realtà storica e sociale circostante, in un universo globale e multimediale onnivoro, manipolato abilmente da forze occulte. Tutto ciò che dovrebbe apparire più agevole e comune, in realtà appare più difficile ed isolato, per una complessità concreta, collegata al rapporto umano e solidale e alla indispensabilità, sempre più impellente, di correlare i dati, le notizie, le acquisizioni critiche con continuità, con durevolezza, per salvare l’arte dalla spettacolarità di un evento, destinato a consumarsi nel breve tempo di una mostra, e a non garantire quella durata, che l’arte invece richiede come garanzia autentica del proprio, autonomo successo.
E la critica? Dopo tante teorizzazioni e sperimentazioni, che hanno spesso assunto autori ed opere a pre-testi di personali o collegiali elucubrazioni, si avverte, più che mai, il bisogno di recuperare storicamente il tempo perduto o semplicemente smarrito, per tornare alle fonti, alle sorgenti del sapere, alla cronaca del fare quotidiano e della storia che rimane. Le vite non potranno mai passare di moda perché sono la nostra irrinunciabile filologia, il filo d’Arianna da seguire per non perdersi nel labirinto ed essere divorati dal mostro di una riscrittura artificiale e compiaciuta. Difendere le ragioni della storia e della natura, proprio nel momento in cui la si riscrive, significa esorcizzare quei neodecadentismi sempre all’erta, che rischiano di minare alle radici un autentico, affabile colloquio tra arte e altre culture e società diverse, disposte ad accoglierla come linfa creativa ma anche come coscienza critica. Quanto tempo è stato forse perduto nel creare nuove teorie mentre artisti ed opere del passato, del presente, del futuro attendevano, alla maniera del celebre dramma pirandelliano, un autore che potesse dare loro un volto, una voce, liberandoli, progressivamente e scientificamente, da quella maschera che una critica, talvolta meccanicamente ripetitiva, aveva ad essi attribuita.
La geografia e la storia dell’arte, come quella di ogni disciplina, non possono essere disinvoltamente bandite o tradite, in nome di interessi personali o di gruppo sommersi o scoperti. Occorre, a tutti i costi, rimboccarsi le maniche e tornare in biblioteca a studiare, a ricercare, per incontri sempre più ravvicinati e autorizzati con la vita, che dall’arte invoca lo spazio privilegiato e pubblico di comprensione e amore profondo, che altrimenti scivolerebbe dalle mani come tanti granelli di sabbia, risucchiati dal ritmo alterno delle maree e delle risacche.
Filologia e storia hanno costituito l’imperativo categorico dei nostri maestri, forse invaghiti di un orizzonte ermeneutico troppo limitato dai propri strumenti e, come tale, poco disposto a concedere spazio ad altri, pur preziosi sostegni, supporti, sbocchi. Solo alimentando una dialettica sempre più avida ed aperta, seria, serena, spregiudicata nei progetti, nei fini, ma soprattutto in quel fare comune, che si evocava all’inizio, sarà possibile schiudere nuove frontiere ad un’arte, una critica, complesse, consapevoli, certamente, ma anche capaci di comunicare di nuovo in forma umanamente confortevole.
L’arte chiede di essere vista, vissuta all’interno di un contesto non separato ed interessato. Essa vuole essere amata, capita come una compagna fedele del nostro cammino. Non rinchiudiamola mai nei sottofondi della nostra società, nel letargo biblico di strutture non sempre efficienti, perché non animate da quel sacro furore che accompagna sempre l’artista nel momento della creazione. Ripristiniamo un corretto incontro tra arte e società, recuperando mancate occasioni di crescita comune, dovute ad un falsato innesto tra arte, economia, politica culturale, non sempre avveduta nel cogliere le possibilità di investimento di un inalienabile bene comune.
Il mondo sentirà sempre più il bisogno di artisti e scrittori, con i quali condividere l’incerto destino del nuovo Millennio; con essi soprattutto tenterà di dialogare, senza infingimenti, per scoprire le radici di quell’antropologia del quotidiano, di cui l’arte si è fatta da sempre interprete e testimone. Il critico, pienamente consapevole di questa ferma esigenza di comprensione e condivisione, non potrà esimersi dal compito di essere medium, tramite naturale del processo di riappropriazione di una identità, ritenuta indispensabile per vivere. (Francesco D’Episcopo)