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“Il cyborg salta il gradino dell’unità originaria, dell’identificazione della natura in senso occidentale…nella cultura scientifica americana della fine del Ventesimo secolo, il confine tra umano e animale è stato ripetutamente abbattuto…il linguaggio, l’uso di strumenti, il comportamento sociale non stabiliscono più in modo convincente la separazione tra umano e animale…negli ultimi due secoli, biologia ed evoluzionismo hanno fatto degli organismi moderni un oggetto di conoscenza e contemporaneamente hanno ridotto il confine tra l’umano e l’animale a una debole traccia re-inscritta nella battaglia ideologica tra vita e scienze sociali”

(Gilles Deleuze – Felix Guattari, L’anti Edipo,1972)

“Io riconosco un vero poeta dal fatto che frequentandolo, vivendo a lungo nell’intimità della sua opera, qualcosa si modifica in me: non tanto le mie inclinazioni o i miei gusti, quanto il mio stesso sangue, come se un male sottile vi si fosse insinuato per alterarne il flusso, lo spessore e la qualità…perché il poeta è un fattore di distruzione, un virus, una malattia ed è il pericolo più grave, seppure meravigliosamente indefinito, per i nostri globuli rossi. Vivere accanto a lui significa sentire il sangue impoverirsi, significa sognare un paradiso dell’anemia e udire, nelle vene, scorrere le lacrime…”

(E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, 1949)

Il corpo si guarda allo specchio e non si riconosce. Troppe ferite e troppo profonde. Troppi i segni della scomparsa di organi. Troppe le protesi tecnologiche.  Il corpo contemporaneo è un nomade in fuga da se stesso, è un corpo disseminato senza centro, è il corpo del mutante tecno-genetico che si tende e si dilata fino al collasso identitario.

Da sempre il corpo è l’area critica, la parte viscida, la zona di frizione del controllo e della mutazione, lo spazio sul quale si (in)scrivono miti e narrazioni, linguaggi e memorie, malattie e rituali di passaggio. Nel corpo si insuffla sapere per renderlo interfaccia del mondo e inerme significato dell’esistere. Il corpo è libertà di fuga e al tempo stesso possibilità di punizione, è il renitente ricettacolo dell’ideologia. Sulla superficie trasparente del corpo si graffita la pelle dell’universo, si marchiano i codici sociali di contenzione e malattia.

Il corpo proto-industriale, fisico e massimalista, ha lasciato il posto al corpo postindustriale, virtuale e minimalista, imbrigliato nei flussi incessanti di informazione e di controllo. Ne è espressione privilegiata il corpo-cyborg, atto in corpo della tecnologia e del desiderio, paranoia cognitiva e territoriale di corpo animale e macchina. Tempio istituzionalizzato della crisi della modernità, in quanto specchio fluido della modernità liquida. La sua massima evoluzione è il cybionte derosnayano, immersivo-connettivo leviatano di corpi e reti telematiche che segna definitivamente la fine delle differenze tra il corpo e il mondo esterno, costruite attraverso i processi di civilizzazione. Così tramonta anche il fondante contrasto ideologico tra natura e cultura. Con la fine della differenza funzionale tra fisico e non fisico, muore la diversità tra uomo animale e macchina.

I corpi cybiontici sono corpi-nodo tecno-esistenziali in continua mutazione e alimentano ancora la relazione ambigua con la malattia e la mutazione stessa. Da sempre gli organismi mutano e mutando si evolvono, ma cellule mutagene sono anche quelle del cancro. Questa terribile anfibologia universale si muta oggi in anfibiologia globale e fa sì che i fiumi della vita e della morte scorrano nello stesso letto.

Categoria superiore del processo di scomparsa del corpo è l’ibrido che, attraverso la sua ambigua collocazione nella scala biologica, cancella la linea d’ombra tra umano e animale. L’organismo ibrido nasce dall’incrocio fra antropomorfo e zoomorfo, spirituale  e carnale, identità e alterità, ragione e istinto, civile e primitivo. L’ibrido è la convivenza dell’alto e del basso, dei meridiani opposti che attraversano la cartografia dell’uomo. È la contraddizione che svela un insanabile conflitto, sul quale si fonda buona parte della cultura occidentale e che deriva dalla rimozione dell’istintualità del corpo attraverso i meccanismi di civilizzazione. L’animalità è prima di tutto alterità e l’uomo-animale è portatore dell’“assoluto naturale”, fatto di violenza e sessualità primigenia, di arcadia e morte (caratteri incarnati dall’olimpo semidivino della mitologia classica e dai bestiari medievali). Ma l’animalità è anche prossimità, è parte in gioco del corpo, prova della schizofrenia del corpo “civilizzato”. È luogo dell’inconscio, ritorno del rimosso, metafora della realtà, in un contatto corporale deflagrante che sbriciola definitivamente l’identità del corpo post-industriale.

La progenie di Echidna e Tifeo ha popolato la terra di sfingi, arpie, idre, chimere, gorgoni, centauri, sirene, fauni, meduse, satiri, sileni, tritoni, minotauri, manticore, uomini-uccello, dei dalla testa di elefante e di sciacallo. Perché, come insegna il Phisiologus di Alessandria d’Egitto, bestiario greco protocristiano del II secolo d.C., il mondo è una foresta di simboli, abitata da bestie favolose che incarnano i significanti di questi simboli e rinviano a realtà filosofiche e morali altre. Quella stessa cosmogonia mostruosa che vive nell’arte visiva di artisti come Rodin, De Chirico, Kahlo, Savinio, Bacon e tanti altri e nella quale Gilles Deleuze vede il lucido terrore dell’uomo contemporaneo di perdere il controllo del suo corpo istintuale.

Ma il corpo contemporaneo è malato allo stadio terminale e occorre cambiare la propria carne per essere liberi di andare altrove.

Con questo numero, AltroVerso conduce il lettore nei luoghi dell’altrove, nel mondo dove agisce il perduto dell’uomo, nella zona d’ombra ove compare il “disagio della civiltà”, nel deserto dell’anima dove il surriscaldato mito simbolista scalpita con i centauri di Bőcklin, Klinger e Von Stuck.

Anche nell’era del post-umano, l’animale, elemento della comunità cosmica, deve essere ucciso perché l’uomo possa vivere e deve essere resuscitato nel corpo perché l’uomo possa espiare. L’umanimale continua a vivere nello spazio interstiziale del mondo, nel tempo “meridiano” di Roger Callois: quando il sole è allo zenit e il tempo è sospeso, quando la ragione è intorpidita e i sensi sono più accesi, quando il magma dell’Es ruggisce sotto la crosta del quotidiano, è proprio allora che l’uomo incontra faccia a faccia i propri demoni.

Nei luoghi “meridiani” di AltroVerso, ai confini del mondo eppure così dentro il mondo, vivono i corpi transitati di Chiara Moimas, i corpi transustanziati di Giancarlo Civerra, i corpi violati di Massimo Zaina, i corpi trasmigrati di Valentino Campo, i corpi ierofanici di Stefano Calzi. E infine i tredici dolenti corpi in corso di mutazione di Denis Brandani ed Ettore Frani.

Perché la letteratura è mutazione, così come lo è l’arte, capacità di mutare la percezione per emendare il mondo, tecnica di modificazione del corpo del reale. In ogni forma letteraria – come anche in ogni forma teatrale – la creazione transita da un eidos all’altro, con una mutazione di corpo e di segno, con il corpo che si fa segno, con l’incarnazione di una nuova unità soma-sema.

Fino all’ultima mutazione, quando il poeta-virus di Cioran comporrà la sua opera definitiva, offrendo alle telecamere di Internet la decomposizione del proprio corpo.

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