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Vincenzo Costa, L’estetica trascendentale fenomenologica, Sensibilità e razionalità nella filosofia di Husserl, Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 340.

All’interno di quella prospettiva filosofica che porta il nome di fenomenologia trascendentale vi è un ambito che Edmund Husserl chiamava “costituzione originaria”, “estetica trascendentale” o anche “costituzione primordiale”. Il suo ruolo, all’interno dell’impostazione fenomenologica complessiva, è apparso sempre più fondamentale al fondatore della fenomenologia trascendentale, mano a mano che il tema della costituzione si precisava nelle sue coordinate. Si tratta di un ambito di problemi relativi alla struttura della sensibilità e alla formazione delle prime unità dell’esperienza, “delle parti fondamentali di una futura fenomenologia dell’esperienza, di una chiarificazione dell’essenza delle datità dell’esperienza che parte dagli elementi più ovvi ed elementari”. Proprio la formazione delle prime unità dell’esperienza e la costituzione, a partire da queste, di un mondo spazio-temporale nella fenomenologia di Husserl costituisce l’oggetto dell’Estetica trascendentale fenomenologica, un lavoro che intende limitare le proprie analisi agli “oggetti dei sensi”, escludendo dal suo ambito tematico quelle formazioni concettuali, giudicative etc. che sono tipiche dell’intelletto, proponendosi di indagare invece le formazioni dell’esperienza che si presentano come già strutturate o che si strutturano autonomamente prima delle attività intellettuali. In particolare, si tratta per Husserl di mostrare che vi è uno strato dell’esperienza che si organizza autonomamente, senza ricorrere a forme “soggettive” ad esso esterne.

È dunque evidente che il compito così delineato si interseca con quello relativo alla costruzione di una teoria generale delle strutture della coscienza, e proprio per questo il lavoro cerca di chiarire la peculiarità di una teoria fenomenologica della coscienza rispetto ad impostazioni differenti dello stesso problema, entrando così in una discussione effettiva con esse. In particolare, Husserl viene messo spesso a confronto con Kant e Hume. Secondo quest’ultimo, la caratteristica generale della coscienza è infatti quella di essere “una sorta di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni”; in particolare Hume scrive che tra le diverse percezioni non vi è alcun legame: “Ogni percezione distinta, che entra nella composizione della mente, è un’esistenza distinta ed è differente, distinguibile e separabile, da ogni altra percezione, altra contemporanea o successiva”. La coscienza – nota a questo proposito Aron Gurwitsch – appare dunque in Hume “come un accumulo o successione di elementi che non hanno tra loro alcuna relazione interna”. Da questo punto di vista, Kant non si differenzia – secondo Husserl – in maniera rilevante da Hume. “Se Kant – si chiede Husserl -, invece del principio dell’abitudine, introduce altri principi di formazione dell’esperienza che sono altrettanto soggettivi e genericamente umani, fa forse una grande differenza?”

Diversamente da queste posizioni, la prospettiva fenomenologica è interamente caratterizzata dall’idea che tra le manifestazioni esistano legami interni, che la coscienza sia un intero strutturato in cui vigono regole ed in cui nessuna manifestazione può essere strappata dalla connessione cui appartiene. Si tratta, del resto, di restare fedeli a quella stessa esperienza cui pure Hume si richiama. Questa non mostra mai manifestazioni slegate e privi di nessi, datità e fatti isolati e dispersi, ma sempre oggetti, cose, eventi che si realizzano all’interno di certe connessioni. Il compito dell’analisi fenomenologica risiede allora nell’esibire le strutture di questa vita, nel dipanarne i fili intenzionali, la trama che la sorregge e ne sta alla base. Ciò implica naturalmente una precisa nozione di analisi costitutiva che deve essere preliminarmente chiarita e che si tenta di sviluppare lungo il corso del lavoro.

Va inoltre preliminarmente osservato che i problemi analitici che ci troveremo ad affrontare si trovano intrecciati, soprattutto nell’ultima fase della produzione husserliana, in un’opera fondamentale come La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, con forti componenti ideologico-culturali, dato che – secondo Husserl – a partire dalle questioni analitiche, il discorso si deve immediatamente riversare sul piano del dibattito culturale. In una lettera del 19.3.1930 Husserl scrive a Roman Ingarden, a proposito di un’opera che avrebbe dovuto concludere il suo itinerario filosofico, che con essa egli si sente “chiamato a intervenire in maniera determinante nella situazione critica nella quale si trova la filosofia tedesca”. Ma già prima, e si potrebbe mostrare sin dal Raumbuch degli anni ’90, Husserl aveva di mira la costruzione di una teoria della ragione capace di distinguere ragioni buone e ragioni meno buone, capace quindi di giustificare l’idea di una ragione universale che va molto al di là della limitatezza delle culture locali. Ciò rappresenta del resto – secondo Husserl – la radice stessa della filosofia. Questa sorge infatti quando l’uomo antico si accorge che popoli diversi hanno modi di pensare diversi, ed avverte che in questa contrapposizione si annuncia “la differenza tra la rappresentazione del mondo ed il mondo reale”.

La presenza, nella Crisi, di questi temi di ordine culturale ed ideologico, così rari nelle altre opere, l’enfasi posta sul significato del ritorno al mondo della vita, ha fatto sì che l’attenzione degli studiosi spesso si indirizzasse prevalentemente verso questi elementi che sembravano conferire alla fenomenologia un significato nuovo ed entusiasmante. Ciò ha però anche fatto sì che gli aspetti analitici più profondi, del resto così caratteristici della fenomenologia husserliana ed in fondo i soli che possano dare consistenza teoretica a quelli di ordine culturale e ai più urgenti bisogni di orientamento, fossero tralasciati, per cui, proprio a quella costituzione originaria o estetica trascendentale, che per Husserl doveva stare alla base della sua costruzione filosofica, si è dedicata scarsa attenzione. È verso questi aspetti della fenomenologia husserliana che L’estetica trascendentale fenomenologica rivolge il proprio interesse, cercando proprio qui la giustificazione per prese di posizione filosoficamente più impegnative.

Il lavoro è diviso in tre sezioni.Nelle prime due sezioni si pone al centro dell’interesse, dopo avere determinato la posizione fondamentale e fondante che la nozione di costituzione originaria svolge nel progetto complessivo, la funzione ordinatrice delle forme di spazio e tempo, della natura della sensazione, la formazione di unità sensibili, la nozione fondamentale di sintesi passiva, quindi le sintesi formali della costituzione originaria del tempo e quelle contenutistiche dell’associazione. Questa rappresenta infatti, come emerge nel corso del libro, il concetto fondamentale della fenomenologia trascendentale, poiché la nozione stessa di intenzionalità ha nella struttura del rimando associativo la sua radice. È quindi essa che, in un certo senso, funge da filo conduttore nelle prime due sezioni del lavoro.

In generale, nelle prime due sezioni ci si limita ad analizzare i problemi relativi alla costituzione delle oggettualità immanenti, lasciando in sospeso quelli relativi alla costituzione degli oggetti trascendenti, esistenti nello spazio e nel tempo obiettivo. Questa analisi viene tentata nella terza parte e richiede la presa in considerazione di uno strato costitutivo relativo alla costituzione cinestetica che era stato dapprima lasciato interamente indeterminato, ma la cui analisi suggirisce senz’altro una reinterpretazione delle stesse analisi precedenti. L’apprensione di un’oggettualità tridimensionale e di uno spazio oggettivo presuppongono infatti una costituzione corporea la cui analisi comporta forse – e già nello stesso Husserl – una revisione profonda della nozione di soggettività trascendentale, soprattutto di quella che sembra emergere da un’opera pur così importante come Ideen I, poiché nessuna apprensione oggettuale sarebbe possibile se noi fossimo un puro occhio privo di corpo, se quindi nella percezione non giocassero un ruolo fondamentale quelle sensazioni di movimento che, sole, permettono la costituzione di un’oggettualità trascendente e la nostra collocazione in un qui. Ma la presa in considerazione di questi aspetti comporta forse la necessità di abbandonare quella nozione rarefatta di soggettività, all’interno della quale ci si muove consapevolmente nelle prime due sezioni del lavoro.

Si tratta infatti di un’astrazione inizialmente necessaria, che ha una giustificazione profonda all’interno della gerarchia costitutiva. Il problema della costituzione dello spazio e quindi delle oggettualità trascendenti, delle cose nel senso autentico del termine non può in realtà – sostiene Husserl – essere affrontato se non viene prima discusso e risolto il problema della costituzione dell’oggettualità interna e del mondo interiore, “cioè della costituzione della corrente dei vissuti del soggetto in quanto esistente per se stesso, in quanto campo cui appartiene ogni essere che gli sia proprio”. Per questo Husserl rimprovera a Kant di aver posto il problema della costituzione del mondo spaziale come se esso non richiedesse una elaborazione ed una costituzione preliminare e di aver sì, nella prima edizione della Critica, abbozzato un effettivo sistema delle sintesi trascendentali, ma purtroppo prendendo “in considerazione solo il problema, sito su un piano più alto, della costituzione di un’oggettualità del mondo spaziale, di un’oggettualità trascendente rispetto alla coscienza”. Mescolando questi due problemi, secondo Husserl, Kant ha trasformato lo spazio in una forma della sensibilità, “mentre, all’interno della mera “sensibilità“, cioè prima delle “sintesi”, che vengono trattate, peraltro abbastanza oscuramente, nell’Analitica trascendentale, non vi può essere alcun tipo di costituzione della spazialità“. Si tratta di una vera e propria costituzione gerarchica che in nessun modo può essere ignorata: “Poiché – scrive Husserl – il mondo spaziale si costituisce coscienzialmente […] è allora chiaro che la teoria sia delle strutture necessarie e generalissime, sia delle possibili forme sintetiche generali dell’immanenza è il presupposto per affrontare i problemi relativi alla costituzione del mondo”.

Di fatto, tutte le analisi, comprese quelle discusse nelle prime due parti del lavoro, convergono verso il tema della costituzione della cosa trascendente, e ciò per un ben preciso motivo: se la nozione di associazione rappresenta il concetto fondamentale della fenomenologia trascendentale, il problema dello spazio ne rappresenta il problema fondamentale, poiché solo a partire da esso può essere avviata una discussione relativa a che cosa sia legittimo intendere per idealismo fenomenologico-trascendentale. Si tratta di una discussione in cui il libro non si impegna, e tuttavia vale la pena annotare che vi sono due ordini di ragioni che motivano questa riconduzione della problematica dell’idealismo trascendentale a quella della spazialità: una di carattere storiografico, relativa cioè allo sviluppo del pensiero di Husserl, l’altra di carattere eminentemente teoretico.

Cominciamo con il prendere meglio in considerazione l’aspetto storiografico. Come è noto, la svolta in senso trascendentale viene di solito fatta risalire alle cinque lezioni su L’idea della fenomenologia tenute da Husserl tra il 27 aprile ed il 5 maggio 1907. La loro pubblicazione, avvenuta nel 1950, separata dal resto del corso di cui esse costituivano l’introduzione, avvenuta invece soltanto nel 1973, ha forse contribuito a diffondere un’idea distorta della funzione della riduzione fenomenologica e di conseguenza della nozione di fenomenologia trascendentale. In queste lezioni sembra infatti che la riduzione fenomenologica consista in una sorta di ritiro all’interno dell’immanenza, per cui sarebbero così dissolti i problemi relativi alla “realtà trascendente”. A ciò sembrerebbe del resto alludere Husserl nell’introduzione alle sei Ricerche logiche, quando scrive che “la questione dell’esistenza e della natura del “mondo esterno” è una questione metafisica”.

Seguire queste indicazioni e interpretare la fenomenologia nel senso sopra accennato ci condurrebbe senz’altro a non cogliere lo spirito autentico che anima Husserl nel presentare la riduzione fenomenologica. La svolta trascendentale introduce infatti una nuova dimensione nel progetto fenomenologico: rendere conto della ragionevolezza della credenza nella realtà. In questo senso, la pubblicazione separata delle cinque lezioni sopra menzionate ha interamente oscurato il fatto che esse sono l’introduzione ad un corso (Hauptstücke aus der Phänomenologie und der Kritik der Vernunft) sul problema della cosa e dello spazio, attraverso cui si ha in effetti di mira il problema della realtà. Le conclusioni di quel corso cercano infatti di capire, dopo che è stata effettuata l’analisi costitutiva della cosa tridimensionale e della spazialità, se la fenomenizzazione operata nell’introduzione sia stata effettivamente superata, e quindi se una teoria della ragione si lasci effettivamente costruire su basi fenomenologiche. Che il problema della realtà sia in effetti il problema autentico che Husserl ha di mira e che addirittura lo motiva a introdurre la riduzione fenomenologica è dimostrato, del resto, dal corso che precede immediatamente le cinque lezioni su L’idea della fenomenologia. Ci riferiamo alle lezioni del 1906-07, dove Husserl introduce per la prima volta in maniera sistematica la teoria della riduzione fenomenologica. Qui è evidente che per Husserl si tratta di dare ragione proprio della nostra credenza nella realtà, di superare il fenomenismo all’interno del quale l’impostazione humeana aveva imprigionato la riflessione filosofica. La fenomenologia viene infatti qui presentata come la scienza dell’essere in senso assoluto, un’affermazione che troviamo del resto ripetuta nella stessa Idea della fenomenologia.

Non si tratta qui di decidere preliminarmente se questa pretesa possa essere effettivamente sostenuta dalla fenomenologia. Bisogna però cominciare con il prendere atto che questa è l’intenzione di Husserl allorché egli dispone la fenomenologia su un piano trascendentale: costruire un realismo non ingenuo, ma fondato e dunque capace di superare le obiezioni scettiche. Se la fenomenologia trascendentale di Husserl giunga effettivamente a superare l’obiezione scettica e fenomenistica è però una questione che può essere decisa solo all’interno della ricerca effettiva.

Le considerazione di carattere storiografico hanno in realtà il senso di fare emergere perché il problema dello spazio debba occupare una posizione centrale nella soluzione fenomenologica del problema della realtà, e tuttavia conviene esplicitarlo ulteriormente.

La riduzione fenomenologica si distingue da una riduzione scettica perché non dissolve la realtà nell’apparenza ma, a partire dal fenomeno, vuole dare ragione della costituzione della realtà. Per l’impostazione scettica, ridursi al fenomeno non significa ridursi alla manifestazione della cosa, ma dissolvere quest’ultima in una parvenza. Lo scettico può di conseguenza affermare che non esiste una realtà oggettiva, e se esiste non possiamo conoscerla. Seguendo il filo di queste argomentazioni si giungerà infine a sostenere che non esiste alcuna verità oggettiva, alcuna possibilità di distinguere oggettivamente il vero dal falso, l’illusorio dal reale, alla dissoluzione della nozione di realtà (l’esse) nel fenomeno (nel percipi). Se riguardo alla fenomenologia parliamo dunque di idealismo e di riduzione al fenomeno, ne parliamo in un senso interamente diverso da come ne parliamo riguardo ad una certa accezione dell’idealismo tradizionale, per esempio nei confronti di quello di Berkeley. Husserl, del resto, ancora negli anni trenta, parlerà della sua fenomenologia come dell’unico vero realismo, come di un realismo che accetta la provocazione scettica, cioè il fatto che noi abbiamo sempre a che fare con fenomeni, e che a partire da qui vuole riproporre la consistenza della realtà, la possibilità di distinguere tra il reale e l’immaginario, tra il vero e il falso, giustificando la credenza nella realtà non in base a una propensione naturale ed istintiva, ma in base a motivi profondi: attenendosi a ciò che si manifesta, al fenomeno, deve essere ricostituita la realtà, deve essere legittimato il realismo. “L’idealismo fenomenologico non nega – scrive Husserl – l’esistenza reale del mondo (e innanzitutto della natura) quasi pensando trattarsi di una mera apparenza a cui, anche se inavvertitamente, il pensiero naturale e scientifico soggiaccia. […] Che il mondo esista, che sia dato come un universo essente nell’esperienza che di continuo converge verso la concordanza, è perfettamente indubbio. Una cosa completamente diversa è cercare di capire questa indubitabilità che sostiene la vita e le scienze positive, e di chiarirne il fondamento di legittimità“; e in una lettera all’abate Baudin scrive: “Nessuno di quelli che sono considerati “realisti” è stato tanto realista e concreto come lo sono stato io, l'”idealista” (una parola che del resto non utilizzo più) fenomenologico”. Rettamente inteso, può scrivere Husserl nella Crisi, “non esiste dunque un realismo più radicale del nostro, purché questa parola non significhi che questo: “io sono certo di essere un uomo che vive in questo mondo, ecc. e di ciò non ho il minimo dubbio”. Ma il grande problema è appunto quello di capire questa “ovvietà“”: il lavoro teso a chiarire questa ovvietà è la fenomenologia trascendentale.

Ora, poiché è attraverso la costituzione della cosa spaziale che si pone il problema della realtà, sarà soltanto studiando questa che potremo alla fine stabilire, da un lato, se la pretesa realistica della fenomenologia sia legittima e, dall’altro, che cosa significhi per Husserl l’idealismo fenomenologico-trascendentale e quali rapporti vi siano tra corpo proprio e io trascendentale, tra il trascendentale ed il sistema cinestetico.

In questa ricerca si fa largo uso dell’opera manoscritta di Husserl, sia di quella pubblicata nel corso dell’ultimo quarantennio, sia di quella che resta ancora inedita e che è stato possibile consultare durante un lungo soggiorno all’Archivio Husserl di Lovanio. E sul valore da accordare al lascito manoscritto utilizzato, anche e soprattutto rispetto alle opere pubblicate mentre Husserl era ancora in vita, l’autore non ha alcun dubbio: l’opera manoscritta è una fonte di grande valore che deve essere considerata persino più importante di quella da Husserl data alle stampe, e ciò per due ben precise ragioni:

1) L’impostazione che emerge dalle opere pubblicate è stata o interamente messa in discussione da Husserl, e attraverso gli inediti si possono mostrare – e nel corso del libro si cerca di farlo – le ragioni interne che impongono l’abbandono dei punti di vista che guidavano quelle opere, oppure maggiormente precisata, chiarita e discussa nei manoscritti, in quanto ritenuta “introduttiva” alla tematica fenomenologica, e quindi relativa ad uno strato costitutivo superficiale. Per tale motivo le opere pubblicate non possono reclamare alcun privilegio in una rinnovata lettura della fenomenologia di Husserl.

2) La maggior parte delle opere pubblicate non vanno al di là di una semplice introduzione. Esse intendono introdurre alle effettive analisi fenomenologiche, ma si guardano bene dal farlo. Inoltre, anche dove lo fanno, sappiamo che Husserl ha finito per rifiutare quelle analisi. Cercheremo di mostrarlo riguardo a Ideen I, ma non vi è dubbio che si potrebbe in parte farlo anche rispetto alle Meditazioni cartesiane.

Dando quindi largo credito alle fonti inedite si è tuttavia ritenuto di dover stabilire dei “livelli” di importanza nel loro utilizzo, distinguendo tra manoscritti che rappresentano corsi effettivamente tenuti da Husserl e semplici manoscritti di ricerca. Le lezioni husserliane, i corsi sono stati considerati di valore enormemente superiore rispetto ai manoscritti di ricerca, poiché esse, superando il semplice appunto ad uso privato, rappresentano la comunicazione pubblica di quello strato costitutivo profondo che nelle opere effettivamente date alla stampa non emerge. Rispetto ai manoscritti di ricerca, dove Husserl sviluppa analisi di cui è a volte sin troppo evidente il carattere “sperimentale”, le lezioni rappresentano infatti una prima comunicazione pubblica dei risultati raggiunti, e per questo motivo devono essere privilegiate nella ricostruzione dello sviluppo di un problema, oltre che per il fatto di offrire un andamento meno frammentario e più ordinato di quello dei manoscritti di ricerca. Ciò non significa che questi – che sono del resto spesso collegati ai corsi, riguardo ai quali rappresentano riflessioni autocritiche e sviluppi teoretici di grande valore – non debbano essere presi in considerazione, tanto più che permettono spesso di connettere i corsi, di ricostruire i percorsi che conducono da un’impostazione all’altra, ma semplicemente che è opportuno collegarli, anche per ragioni di sistematicità, con un nucleo argomentativo più solido.

La struttura prevalentemente sistematica che viene data allo sviluppo argomentativo, quindi la trattazione dei problemi per grandi nuclei tematici, non deve oscurare il fatto che nello stesso sviluppo del pensiero husserliano questi temi hanno ricevuto, in momenti differenti, una soluzione diversa, che essi hanno una storia, e che, a seconda della posizione assunta rispetto a tali soluzioni, emerge una nozione di fenomenologia trascendentale interamente diversa. Ci si è dunque in questo lavoro sforzati di abbinare la ricostruzione teoretica della posizione matura di Husserl con un’analisi del percorso, delle tappe che ad essa conducono, di fare emergere, nei limiti del possibile, la proposta teoretica “matura” dalla discussione degli approcci che si rivelano alla fine non percorribili.-Vincenzo Costa

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Jacques Derrida nasce il 15 luglio 1930 a El Biar, presso Algeri, da una famiglia ebraica. Proprio per questo, durante gli anni della Seconda guerra mondiale conoscerà le discriminazioni derivanti dalle leggi razziali emanate dal regime di Pétain. In gioventù entra in contatto con le correnti più vive della cultura francese e con le esperienze politiche dell’estrema sinistra non comunista. L’impegno politico resterà una costante della sua personalità, e lo porterà negli anni seguenti a impegnarsi a favore del dissenso nella ex Cecoslovacchia comunista o a favore del movimento antirazzista in Sudafrica.

Derrida prende senza dubbio le mosse dalla fenomenologia trascendentale di Husserl, riflettendo sulla quale fa emergere la propria originale posizione[1]. Tuttavia, che il suo pensiero possa ancora essere inquadrato anche solo in senso lato all’interno della fenomenologia non è per niente ovvio. Derrida, infatti, ha costantemente cercato di mostrare come la ragione sia il risultato di un insieme di forze e come essa sia radicata in certi idiomi, in certe strutture segniche determinate e circoscritte, poiché a suo parere non vi è alcun significato puro, cioè indipendente dal significante attraverso cui noi ci possiamo rapportare ad esso. L’idea di un significato puro, che esiste prima e fuori del tempo, dunque di una verità stabile, è un’idea caratteristica della metafisica occidentale che Derrida, seguendo Heidegger, determina come una metafisica della presenza. Proprio perché crede in una struttura pura del significato e dunque della ragione, la filosofia appartiene a ciò che Derrida chiama “logocentrismo”, il cui carattere consisterebbe appunto nel rivendicare il privilegio del logos rispetto ad altre forme di produzione del senso, invece di interrogarsi sulle origini “non logiche” della stessa logica, e dunque della razionalità.

Opponendosi a questa metafisica, che ha sempre considerato il segno come qualcosa che sopraggiunge ai significati, Derrida, utilizzando la lezione dello strutturalismo, ha messo in luce che il significato non può darsi senza segni, e che dunque non vi sono significati in sé, ma solo tracce di tracce[2]. Per questo, questa metafisica deve essere decostruita. Occorre cioè fare emergere ciò che essa ha dovuto emarginare e occultare per poter fare stabilire l’idea di un puro significato che esiste indipendentemente dal segno. Ed in questa direzione emerge che il logocentrismo è solidale con il fonocentrismo. La metafisica ha cioè pensato che dapprima vi è un significato puro, poi una sua espressione con la voce, che viene considerata un segno naturale, e poi una sua trascrizione attraverso la scrittura, che viene considerata dalla tradizione metafisica un segno innaturale, perché mentre nella voce il significato non si allontana da chi parla, con la scrittura il segno può essere iterato in nuovi contesti, esponendosi così al fraintendimento e alla perdita. L’idea della metafisica è in altri termini che vi sia un significato puro, e che l’incomprensione, lo slittamento di significato sia colpa del significante, ed in particolare del significante scritto. Al contrario, Derrida intende mostrare che il segno scritto non è qualcosa in cui viene depositato un significato che esiste già, ma è proprio ciò che costituisce il significato, il quale dipende dunque da un certo di scrittura. E questo significa che non vi è una ragione universale, perché la ragione è legata al grafema e alle differenze che strutturano le catene grafiche.

Liberarsi dal logocentrismo significa però anche abbandonare l’idea che la storia sia una teleologia, un percorso attraverso cui ci avviciniamo alla verità. Al contrario, la nozione di teleologia deve essere sostituito da quello di disseminazione. Non vi è un avvicinamento alla verità perché non c’è niente da raggiungere. Esistono solo contesti circoscritti determinati da certi tipi di scrittura, dunque universi di discorso. E noi viviamo in un contesto determinato dalla scrittura alfabetica, che ha prodotto quelle idee che sono caratteristiche dell’Occidente: l’idea di verità, la sua logica basata sulle leggi di conseguenza tra premessa e conseguenza, che si basano sulla linearità di questa scrittura etc. In questo modo, la decostruzione avvia una critica che mira a dissolvere l’eurocentrismo, e cioè l’idea secondo la quale la cultura occidentale è superiore alle altre, perché è depositaria dell’idea di ragione. Di questo modo di pensare Derrida ha poi denunciato le implicazioni filosofiche e politiche, segnalando quella confusione che fa si che l’occidente rappresenti se stesso come la punta avanzata, il modello guida di un’umanità autentica[3].
[1] Cfr. in particolare J. Derrida, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, tr. it. di V. Costa, Jjaca Book, Milano 1992, Introduzione a “L’origine della geometria” di Husserl, tr. it. di C. Di Martino, Jaca Book, Milano 1987, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, tr. it. di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1997. Per un’analisi più ampia dei rapporti che Derrida intrattiene con la fenomenologia trascendentale d Husserl si veda V. Costa, La generazione della forma. La fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Derrida, Jaca Book, Milano 1996.
[2] Cfr. su ciò J. Derrida, Della grammatologia, tr. it. di G. Dalmasso e altri, Jaca Book, Milano 1998.
[3] J. Derrida, Oggi l’Europa, trad. it. di M. Ferraris, Garzanti 1991, p. 22.

a cura di
Vincenzo Costa
Univeristà Cattolica di Piacenza