Ennio Di Vincenzo: arte vs morte

 

di Antonio Gasbarrini

 

Era un giorno di giugno. Da un paio di mesi in circa 35.000 aquilani eravamo sfollati negli alberghi ed altrettanti nelle tendopoli. L’artista Ennio Di Vincenzo ci aveva lasciato per sempre nell’esilio consumato in un ospedale di Tocca da Casauria, in provincia di Chieti.

   La sorte aveva decretato che simbolicamente morisse nel paese natio di Francesco Paolo Michetti, il più rappresentativo artista abruzzese, attivo dalla seconda metà dell’Ottocento fino al 1929.

   Anna Maria Giancarli (poeta e coniuge dell’artista) mi aveva chiamato al cellulare, chiedendomi se me la sentivo di dire “qualche parola” durante la celebrazione del rito religioso legato all’estremo saluto del proprio caro. I funerali si sarebbero tenuti in una tenda di fortuna issata nel piazzale antistante il cimitero monumentale dell’Aquila, a causa dell’inagibilità dell’attigua, bella chiesa rinascimentale di S. Maria del Soccorso (eretta a ridosso del terremoto del 1461 che aveva a suo tempo già distrutto la città, come d’altronde era poi avvenuto una seconda volta nel 1703).

   Durante il viaggio dalla costa teramana – dove ero approdato come naufrago all’indomani del tragico sisma – a L’Aquila, pensieri ed immagini di Ennio e della sua arte, si accavallavano, intersecavano, sovrapponevano, dileguavano in una sorta di fluidificato, circolare loop.

   La minuta figura di Ennio, con l’eco della sua baritonale, eufonica voce, mi accompagnava con la stessa dolcezza di una nenia.  Sullo sfondo ed in penombra, la signorilità dei suoi gesti e gli sprezzanti giudizi sulla controrivoluzionaria antietica berlusconiana dilagante nel nostro “disgraziato” Paese dalla metà degli anni Novanta.

   Ce l’aveva con tutto e con tutti. A parte i giovani artisti, il cui talento (là dove si palesava) era il primo a riconoscere e sostenere.

   La sua levissima, ma tagliente ed aguzza arte, nei quadri-oggetto più recenti incrinava vetri antisfondamento, quasi a voler congelare nei casuali segni della superficie, una rabbia repressa.

   Alla società violenta ed ecologicamente violentata, contrapponeva la dolcezza dei contorni di figure muliebri, il giocoso volo di farfalle, l’irruenza di un rinoceronte in via di estinzione o inoffensivi aerei- bombardieri di carta.

  Con i suoi luministici, laserici segni voleva trovare una via d’uscita a quel soffocante, claustrofobico labirinto cretese riletto secondo una negativa topografia metropolitana……

 

   Cosa dire? Poi, mentre l’onirico viaggio assecondava il familiare paesaggio montuoso dell’aquilano, un’illuminazione (per dirla con Arthur Rimbaud), venuta da lontano, molto lontano, aveva risolto gli affastellati pensieri: in primo piano c’erano adesso le fotografie dei “funerali estetico-coreografici” allestiti dagli allievi di Kazimir Malevitch nel 1935, con il carro funebre (un camion scoperto) addobbato con sue opere suprematiste, fotografie riprodotte nella monografia feltrinelliana curata negli anni Settanta da Nabokov.

   Dirigermi a casa – abbandonata nelle prime convulse ore susseguite a quella stramaledettissima notte delle 3 e 32 – afferrare nello studio una cartella di grafica, fuggire nuovamente per recarmi nel non lontano cimitero, è stato un attimo (strana attrazione-repulsione quella dei terremotati con il proprio habitat devastato, o meglio, profanato dalla furia devastatrice d’una vendicativa natura).

   Si trattava della cartella contenente tre opere di Ennio, tre poesie inedite di Edoardo Sanguineti ad esse ispirate ed un mio testo di presentazione; era stata tirata, in un numero limitato di copie, nella Stamperia dell’Arancio di Grottammare nella seconda metà del 2006.

   Più o meno in quello stesso periodo risaliva l’inizio del Calvario che lo avrebbe tenuto inchiodato in un letto fino all’ultimo esilio di Tocco da Casauria. 

   Con Anna Maria avevamo a suo tempo concordato di presentare le grafiche, con contestuali letture delle poesie di Sanguineti, durante le feste natalizie nello spazio culturale di Angelus Novus da me diretto sin dal lontanissimo, remoto 1988 (per chi ha impresso sulla propria pelle le terribili scosse del sisma, le coordinate spaziotemporali consuete cambiano radicalmente i loro connotati, come sta avvenendo nella scienza con la teoria delle stringhe).

  Ad Angelus, tra l’altro, Ennio aveva tenuto alcune sue mostre personali o aveva partecipato a mostre di gruppo, mentre Anna Maria vi aveva organizzato alcune edizioni di “Poetronics” (incrocio/incontro/contaminazione tra poesia e musica elettronica).

 

 

   Nonostante i buoni propositi succedutisi con una costante frequenza, la cartella  d’arte non era stata più presentata per le ovvie ragioni legate alla precarissima salute di Ennio.

  Ancora oggi non so spiegarmi quale impulso mi abbia spinto ad entrare nella bianchissima tenda di 5×8 mq. dove era da poco iniziata la messa funebre e a dirigermi verso la bara, appoggiandole vicino (in verticale), la rigida cartella telata, senza minimamente chiedermi cosa pensassero i familiari e gli amici presenti.

   Ma non è finita qui. Usciti nel piazzale per l’ultimo saluto, ho detto pochissime, telegrafiche parole sulla figura artistica ed umana di Ennio, mentre più circostanziate sono state, invece, le considerazioni sulle sue grafiche e sulle poesie di Sanguineti, impresse su quei “giganteschi fogli” di cm. 50×70 tremolanti nella mia malferma mano, esibiti come trofei di una tenace resistenza: arte vs morte!

 

P. S. Tra surrealtà e surrealismo, c’è un’abissale differenza: vedere le immagini, per credere.

La dimensione ipertragica del terremoto aquilano è stata deliberatamente rimpicciolita ed offuscata dai massmedia filogovernativi. Degli oltre 300 deceduti durante il terremoto e dei circa duemila feriti si è saputo qualcosa. Delle altre centinaia di morti nel frattempo sopraggiunte, come quella di Ennio, niente.

 

 

Dalla costa teramana, un critico terremotato, nel Ferragosto del 2009   

 

 Caro Antonio ho scritto per molti artisti compagni di viaggio chiamati ad  altri mondi in questo nostro universo a tempo determinato.  Tutte  la volte il testo inizia con queste parole: gli artisti non muoiono mai, la loro stessa dipartita è un atto di nascita dell’arte. Il funerale suprematista di  Kazimir Malevitch pensato da te mentre andavi in macchina per salutare  Ennio Di Vincenzo che guarda caso porta il cognome di un grande architetto da me molto amato per aver costruito l’incompiuta;  San Petronio a Bologna (Antonio Di Vincenzo) è stato un messaggio di cui ti sei fatto interprete. Sei un critico dotato di sensibilità pari agli artisti e quindi non potevi sottrarti dal richiamo di grandi uomini che adesso parlano allo spirito di grandi uomini viventi. Sei un testimone della tua città tra i più preziosi. L’Aquila lo sa, noi lo sappiamo. Antonio Picariello

3_rito_religiodo_3_di_vincenzo.JPG

Ennio Di Vincenzo: morire di terremoto (anche)

di Anna Maria Giancarli *

 

Alle 3,32 del 6 aprile 2009, una convulsione incontenibile stringe la
città ed i suoi dintorni in una morsa, la scuote con inaudita
violenza, la solleva e la fa ricadere ad una velocità mostruosa, la fa
penosamente ondeggiare, la contorce per 30 interminabili secondi.

Il terrore alle 3.32 è stato tale che ci ha spinto ad uscire di casa come
animali in cerca di salvezza.

Il letto di Ennio veniva spostato dalla
furia del terremoto e lui dormiva sedato dalla morfina e dai
tranquillanti.

Siamo usciti tutti ed è rimasto dentro mentre nel
mio/nostro cuore cadeva un macigno enorme che ci impediva di
respirare.

Poi l’abbiamo portato al piano terra e lo accudivamo a
turno devastati dalle continue e forti scosse, fin quando, finalmente,
al terzo giorno è arrivata un’ambulanza che si è fermata prima della
strada di accesso  alla nostra casa ostruita per il crollo di tre fabbricati
antistanti.

Eravamo rimasti intrappolati nel giardino.

Dopo la permanenza di un giorno all’ospedale da campo dell’Aquila, Ennio, che non aveva mai voluto salire su un aereo, è stato trasportato con un
elicottero militare all’aeroporto di Pescara e da lì, con un’ambulanza
ad una RSA di Tocco da Casauria.

Gli occhi azzurri di Ennio
sembravano enormi sul suo viso scavato e mi guardavano smarriti
durante i lunghi, dolorosi giorni di permanenza in un luogo che non
riconosceva.

La sofferenza lo divorava, aveva ceduto alla malattia e s’allontanava.

Non ho capito se si fosse reso conto di quanto ci era
accaduto: tanti suoi sguardi e rare conversazioni, mi vanno
convincendo che sapeva tutto e non voleva parlarne.

Era lucido e soffriva per non poter più creare i suoi quadri-oggetto in cui
riversava tutta la sua ribellione, tutta la sua dolcezza, tutto il suo
mondo di farfalle, labirinti, uccelli, vetri rotti, tenere bocche
serigrafate tra dollari e arabeschi.

Spesso gli mostravo i suoi cataloghi e lui, tra strazianti visioni oniriche, mi parlava delle sue mostre e delle sue opere.

Fino all’ultimo, fino all’ultimo respiro, in
una stanza-carcere di Tocco da Casauria, mentre il terremoto
continuava la sua opera di distruzione.

 

Primi di agosto 2009 (da un albergo di Pescara in cui, da terremotata aquilana, è ospitata)

 

* Poeta [coniuge]

stampa genova.pdf