L’arte contemporanea risulta incomprensibile a chi non conosca la sua storia recente. Riesce davvero difficile per chiunque non abbia una discreta frequentazione capire in quale modo un determinato oggetto diventi arte e attraverso quali procedure di verifica.

La ricerca accademica negli ultimi decenni è cresciuta molto nell’indagine di questi processi di attivazione creando schiere di “procuratori” d’eventi e di mediatori culturali i quali, soprattutto nel libero contesto espositivo delle gallerie, si ingegnano di trovare sistemi di visibilità per le loro scelte. Queste modalità di selezione e di continuo aggiornamento hanno certamente aiutato il sistema dell’arte a raggiungere una visibilità ed una credibilità prima irraggiungibile. D’altra parte è pur vero che le professionalità create formativamente dalle istituzioni non avrebbero senso se private del territorio complesso e variabile del sistema mercantile, le gallerie d’arte dove accadono determinati eventi e che garantiscono una continuità produttiva agli artisti. Il problema reale della comprensione dell’arte contemporanea oggi quindi non è nella sua visibilità, poiché chiunque può rendersi conto di quanto essa appaia. Cattelan sulla copertina del magazine del Corriere della Sera non è un caso. La sua figura sigla nell’immaginario ed identifica il nuovo concetto d’artista a cui molto è concesso anche in termini di credibilità, laurea, mercato, stile di vita. Ogni settimanale che si rispetti produce molti servizi sull’arte contemporanea e quasi sempre con un’impronta adeguata professionalmente, in cui si può soltanto intravvedere lo sforzo e la determinazione di chi attraverso questi sistemi di comunicazione vuole dimostrare e dare maggiore visibilità alle forme varie del contemporaneo. La difficoltà è semmai nelle spiegazioni da dare a chi vede nel complesso fenomeno dell’arte qualcosa di incomprensibile.

Le molte occasioni di eventi internazionali, adesso proliferanti un po’ ovunque, riescono a raggiungere la pagina della rivista non specialistica, l’informazione televisiva. Ciò che solo qualche anno fa riusciva impossibile è adesso cronaca quotidiana. Ampi servizi ci raccontano di eventi anche lontani, la nascita di nuovi settori di ricerca. L’informazione non manca, ed è anche ben confezionata. Eppure l’ampia schiera di critici e curatori attualmente al lavoro deve accettare un dato di fatto: chiunque può accedere all’informazione ed alla cura riassuntiva dei fatti contemporanei ma nessuno può in alcun modo produrre qualcosa che vada al di là di quanto sia prodotto all’interno del sistema di mercato. Si dirà che questo è un bene, e naturalmente con un occhio allenato alla realtà si potrebbe affermare che è la giusta legge del libero mercato e così tutto rimane al suo posto. Questo è il miglior sistema possibile e non ci sono alternative. Tuttavia il discorso implica alcune problematiche che soltanto un giudizio superficiale potrebbe disconoscere. Un libero mercato si regge sulla domanda e sull’offerta. A questi parametri vanno aggiunte alcune coordinate imprescindibili. La pubblicità, la veridicità e la tenuta dei lavori di un artista nel nostro caso: la qualità insomma da sola non basta, ci vuole anche chi se ne interessi. Le strategie del mercato globale impongono che l’arte sia veicolata attraverso la sua visibilità per così dire “didattica” attraverso l’informazione e la successiva risposta del mercato. Un artista che abbia grande visibilità dovrebbe crescere anche nel mercato, con tutte le conseguenze che questo comporta. Rialzo dei prezzi, creazione di un contesto preciso, riferimenti al valore storico critico, surplus culturale. Eppure non è mai un caso che gli artisti di cui si parla siano già all’interno di questo mercato. In un certo senso è proprio l’essere dentro al mercato che fa di un individuo un artista. Soprattutto nel caso di processi creativi non altrimenti verificabili il mercato diventa la prova, la cartina al tornasole della qualità stessa dell’opera. A questo punto allora appare chiaro che tutto ciò di cui abbiamo detto prima è solamente elusivo, qualcosa di ideale di cui vorremmo poter discettare, quali valori culturali, qualità e altro dell’arte, ma poi in sostanza quello che viene riconosciuto come valore è soltanto ciò che si vende. Anche se noi volessimo fare un’azione di totale estraniazione da questo contesto “libertario”, la constatazione di un’impossibile riduzione o elevazione a qualità monetaria di un’opera artistica la pone al di fuori del sistema di verifica culturale nel contemporaneo. Chi non capisce nulle dell’arte capirà certamente quanto costa un’opera e potrà anche dannarsi l’anima col dire che non vale niente, ma il fatto rimane. Quell’opera vale i soldi che l’hanno pagata, è la sua conferma di qualità.

Ritorniamo al discorso della critica e della cura critica. Abbiamo detto che la qualità e la professionalità di questi attori del sistema è cresciuta molto. Ci sono molti più autori nel campo della cura e della critica ma nessuno di questi ha la forza di realizzare un progetto che possa determinare scelte e averne conferma del mercato. D’altra parte anche i grandi curatori di qualche decennio addietro hanno di molto ridotto le loro identità per poter avviare un percorso di conferma nel mercato. Celant ha dovuto bloccare la storia dell’arte per conferire alla sua visione dell’Arte Povera una dimensione economica: Achille Bonito Oliva, che pure aveva curato mostre di grande livello come Contemporanea, solo attraverso la Transavanguardia è riuscito a produrre questo feed-back fra proposta e realizzazione economica nel mercato. E probabilmente se non avesse fatto queste scelte oggi pochi ricorderebbero quanto aveva inciso prima. Adesso che il sistema è enormemente parcellizzato, il critico ed il curatore che voglia vivere nel libero mercato non può che operare sulle scelte già date da questo. La sua professonalità è tale da poter ovviare all’evidente resa del processo di verifica storico critico con la misura delle sue parole e delle sue ideazioni, ma sempre all’interno di scelte già comprovate e misurate dal mercato. L’obsolescenza di determinate scelte critiche compiute da grandi storici del passato recente, come Argan, dimostrano che sulla qualità critica dell’opera possiamo sempre discettare ma sul suo valore storico, se di storia del presente, dobbiamo chiedere ai parametri economici, quindi al beneficiario di ciò: il mercante d’arte. Cosa ne pensa? E allora chi sceglie? Il critico o il mercante? Chi fa la storia? Certo è triste e davvero riassuntivo porla in questi termini ma la realtà è questa. Possiamo realizzare tutte le mostre che vogliamo ma se non ci si mette dentro l’energia del mercato facciamo soltanto documentazione e non assumiamo alcun peso politico, nel senso pratico del termine. La critica contemporanea, la divulgazione da rivista, la cura, sono tutti percorsi individuali che lo storico critico può compiere ma se vuole essere riconosciuto politicamente come tale allora deve interessarsi di ciò che si vende e se si interessa solo di questo in cosa consiste la sua visione critica? Di una scelta fra le varie già offerte dal mercato? D’altra parte della sua visione critica non possiamo farne un sistema di mercato e allora è logico che le istituzioni, i musei, le grandi rassegne vedano e peschino soltanto all’interno della realtà “qualitativa” decretata dal mercato con la consapevolezza che all’interno del cerchio si sopravvive mentre della visione critica possiamo anche provarne fastidio. E d’altra parte quale mercante vorrebbe lasciare che le sue scelte siano nelle mani dello storico critico? Chi vorrebbe convalidare una storia di cui non sia artefice? Lavorando con la cura critica si avrà la percezione di questo distacco fra visione delle scelte e necessità delle risposte: la professionalità si costruisce nella qualità dello scritto e dell’allestimento, dove non c’è coinvolgimento che non sia semplice misura di un profitto anche soltanto evocato. Se non fosse così non avremmo percezione di questo ampio girone circostante, numero e pubblico del sistema che avvolge e gratifica, in cui artisti e critici hanno sterminate modalità di attuazione dei propri propositi ma nella realtà nessuna conferma di qualità in termini concreti nel sistema di mercato. Quando ci accorgiamo d’una debolezza del settore contemporaneo, in particolare italiano per la sua assenza, paragonandolo successivamente col gigantismo museale presente nel sistema di mercato, non possiamo recriminare fra istituzioni mancanti e realismo delle scelte. Si tratta di un’ovvia conseguenza delle scelte (decisioni) di chi gestisce politicamente e ha oggi deciso per l’apparenza piuttosto che per l’esperienza. Si tratta, infine, del collasso attitudinale di tenere separati mercato e ricerca, profitto e prodotto e senza alcun diaologo tra le parti. Creando così istituzioni vuote d’appartenenza e specchio riflesso per le scelte abitate altrove e per la ridondanza di mercati del tutto sconosciuti e per noi estranei.