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 Qual è stato il suo percorso nel mondo della creatività? Quando avevo nove anni volevo fare l’astronauta.

Poi ebbi la mia prima carie e la Nasa mi disse che gli astronauti non potevano avere carie per via dei cambiamenti di pressione all’interno delle astronavi. Addio sogno di fare l’astronauta, addio astrofisica.

M’iscrissi a Economia alla Bocconi di Milano. Dopo due anni passai ad Architettura, forse perché volevo fare la cosa opposta, ma non avevo mai pensato di diventare architetto, curatrice, esperta di design. È un po’ come se non avessi scelto, ma avessi invece colto al volo le opportunità che mi si presentavano. Alla Facoltà di Architettura cercai di lavorare come architetto, ma non ero molto brava, perciò una ventina d’anni fa accettai un lavoro temporaneo alla Biennale per organizzare una mostra e quello fu l’inizio di una reazione a catena: quattro anni alla rivista Domus, due ad Abitare, poi cominciai a venire negli Stati Uniti a insegnare, facevo avanti e indietro, finché su una rivista vidi un annuncio per questo incarico al MoMA che ottenni quattordici anni fa.

C’è una differenza sostanziale tra Stati Uniti e Italia nell’insegnamento del design?

Enorme. Nella maggior parte delle scuole americane il design è abbinato all’arte e io lo trovo molto pericoloso, perché credo che

i designer dovrebbero studiare i cantieri, la tecnologia dei materiali, apprendere i fondamentali e poi spiccare il volo. Se invece cominciano da artisti, penseranno sempre come artisti e le differenze tra artisti e designer sono molto sottili e hanno perlopiù a che fare con l’autonomia e la libertà. Un artista può scegliere se essere responsabile, se lavorare o meno con altre persone; un designer deve farlo per definizione. Negli Stati Uniti i designer pensano di potersi esprimere senza prendere in considerazione gli altri. Poi si ritrovano ad affrontare il mondo del commercio, del marketing e

computer potevano comunicare tra loro. Schermo grigio, lettere verdi, bisognava digitare tutti i comandi fino a quando i designer hanno creato l’interfaccia. All’improvviso c’erano bottoni, finestre, linee su cui cliccare e tutti hanno potuto usare la rete. Oggi i designer stanno facendo lo stesso con la nanofisica, la nanotecnologia e l’ingegneria del design. Comunicano a scienziati e tecnocrati le esigenze della gente e alla gente forniscono innovazioni che sarebbero altrimenti ingestibili.

In alcune didascalie parlava della biomimica, dell’apprendimento del designer dalla natura. Può spiegare questo concetto? Succede ovunque nel mondo. La natura ci ha sempre mostrato il modo migliore di costruire, ma noi non siamo ancora riusciti a decifrare il segreto, perché il segreto è disegnare non tanto dall’alto verso il basso quanto dal basso verso l’alto, partire dalle cellule, dalle particelle, e infondere loro vita come se fossimo dèi, per poi lasciarle crescere. Abbiamo quindi cercato di capire ex novo come volare osservando le libellule e come muoverci osservando i bruchi e Altri animali. Questa  disciplina è stata  sintetizzata nel termine «biomimica» da Janine Benyus qualche anno fa. Il motivo per cui è un aspetto molto importante di questa mostra è che il computer, malgrado la sua artificialità, ci ha permesso di avvicinarci molto di più all’organicità della natura. …….