Gennaio 2016


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Quo vado

Una personale analisi con l’obbligo di una premessa: sintomi prebellici governano il sistema e la percezione globale nelle società degli uomini. Come facciamo a distinguere una cosa vera da una cosa falsa?, come si definisce scientificamente o semanticamente la parola cosa?. Vediamo. A inizio millennio Bauman ci aveva donato la  definizione della cosa con l’appellativo di liquido; società che si comportano oltre lo strutturalismo cui ci avevano abituato i grandi ricercatori poli-scientifici come Levi-Strauss sceso nel cordoglio comune con la salita forzata del postmodernismo mai accettato dallo stesso autore Jean-François Lyotard.  Adesso la cosa che i palinsesti dei telegiornali Rai e Mediaset puntano a modellare per la preparazione o le aspettative delle società del 2016 all’avvento bellico mondiale. Prove di guerra, di armi dall’oriente, strategie di guerriglia globale arabe, modelli aperti di difesa dell’Europa che spesso comportano risultati negligenti: prova ed errore facendo in modo che le razze occidentali con le loro storie di derivanze, italiani svevi longobardi austriaci francesi germanici qualunque sistema storico con il proprio comportamento a cui ci aveva abituato J. Le Goff, vivono contemporaneamente la posizione dell’attaccato e dell’attaccante, della preda e del predatore con un’unica finalità: raggiungere la selezione e limitare l’avanzamento demografico. Il pianeta non regge non c’è spazio non ci sono possibilità di alimentazione per i multipli demografici che avanzano. Si applicano le teorie di Malthus. La comunicazione frammentata del nuovo millennio ci ha abituato a vari titoli a chiamare la cosa  cultura intendendola per effetto simpatico   tutto ciò che serve a poco o a niente. Non serve a mangiare, non è un utensile la cultura. Non seleziona i superstiti dai sopravvissuti non marchia le  razze designate a salvarsi dall’ avanzamento demografico. La cultura non soddisfa le speranze delle nuove generazioni così come avveniva al tempo della  conquista di una laurea che permetteva il passaggio da uno stato all’altro della società. Fenomeno che all’inizio apriva lo status sociale  con la  qualifica di un  diploma. Oggi la parola cultura mette terrore e riabilita la  frase celebre e sciagurata nazista di  Goering-Goebbels: “quando sento parlare di cultura metto mano alla pistola”.  Era la frase preferita dai gerarchi nazisti perché funzionava bene senza sforzo di sintesi  per  riassumere  il loro mondo ideale. Comunque si trattava di  una citazione estratta  dal dramma teatrale dedicato da Hanns Johst a Leo Schlageter; un ufficiale tedesco fucilato dai francesi durante l’ occupazione della Ruhr nel 1923. La stessa Francia però, vale la pena ricordarlo per dovere filologico,  aveva avviato i sintomi della distinzione contro la “razza” ebrea  con  “L’affare Dreyfus” tra il 1894 e il  1906, fatto o cosa, che  permise poi  a  Émile Zola – amico nemico di Cézanne –  l’ intervento  politico giornalistico denominato “J’accuse” . L’ opera tedesca, invece, fu lanciata a Berlino nell’ aprile del 1933 e divenne un testo sacro del teatro nazista. Niente di più appropriato che una sostanziale  battuta per rendere efficace l’ideologia della razza pura: “Wenn ich Kultur hore, entsichere ich meinen Browning”. Quando sento la parola cultura tolgo la sicura alla mia Browning. E alla fine ci ritroviamo nel 2016 con i 37,2 milioni di incassi in sei giorni di “Quo Vado” prodotto da Valsecchi  su idea e progetto di Checco Zalone-Gennaro Nunziante. Ed ecco il primo punto.   Il manager cui si dovrebbe dare credito è proprio Valsecchi che riesce a raggiungere in poco tempo un capitale che se rapportato al PIL nazionale fa impallidire le capacità gestionali dei politici nostrani. Non a caso l’astuzia “acheica” di Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975)  si pronuncia condivisoria all’apprezzamento di massa anche perché la massa in politica equivale al numero demografico dei voti. Ma Renzi condivide con Luca Pasquale Medici (Bari, 3 giugno 1977) detto Checco Zalone  e che  in dialetto barese, si pronuncia  “che cozzalone!”, ovvero  “che tamarro!”, anche la rappresentanza culturale della loro   condizione generazionale.  Il primo, l’Ulisse fiorentino,  nasce quando a Londra viene aperto da Malcolm McLaren e Vivienne Westwood il negozio “Sex” dedicato alla vendita di vestiario e accessori punk. Per pubblicizzare il negozio, McLaren creò il gruppo dei Sex Pistols. È lo stesso anno di nascita del  gruppo musicale Heavy metal Iron Maiden voluto dal bassista Steve Harris coevo alla nascita della rock band femminile The Runaways a Los Angeles. Ma è anche lo  stesso anno  in cui Margaret Thatcher diventa  leader del partito conservatore inglese mentre in Italia viene  approvata la legge che abbassa la maggiore età da ventuno anni a diciotto e la Corte costituzionale riconosce la legittimità delle norme che puniscono l’aborto. Per il Checco barese invece l’anno di nascita è lo stesso in cui  termina ufficialmente la trasmissione di Carosello che aveva educato ai consigli per gli acquisti le generazioni pioneristiche in Italia si intende alla magia psico-educativa della televisione in bianco e nero che diventa a colori nel ’77. Con  questa manovra irriverente verso la quiete mentale delle masse,  la RAI passa al tipo di spot pubblicitari attuali che rendono il mondo nevrotico e sconsolato all’ insegna esclusiva della bramosia dell’usa e getta, di una POP art o di un affollamento nefasto della buona tradizione latina trasformato in  controllo pastorale organizzato sul linguaggio caprino dei consumatori. Le conseguenze viziose di questo atteggiamento   scateneranno l’attuale accumulo diabolico di prodotti mortali per la natura e il pianeta terra.   Jimmy Carter è ufficialmente il nuovo presidente degli Stati Uniti. A Roma il segretario della CGIL Luciano Lama viene violentemente contestato all’Università La Sapienza da gruppi di autonomi e indiani metropolitani. Nasce il movimento del ’77.   Con  un decreto legge vengono abrogate le festività dell’Epifania, San Giuseppe, l’Ascensione, il Corpus Domini, i Santi Pietro e Paolo e la Festa Nazionale del 2 giugno e del 4 novembre. È il risultato della politica di austerity del governo italiano adottata nell’autunno 1976. Il Partito Radicale chiede l’imputazione del Presidente della Repubblica Giovanni Leone per lo scandalo Lockheed e Il Parlamento in seduta comune vota il rinvio a giudizio degli ex ministri Luigi Gui e Mario Tanassi per corruzione aggravata a danno dello Stato. A  Bologna  avvengono i primi atti di guerriglia urbana tra studenti e forze dell’ordine nella zona universitaria. Il militante di Lotta Continua Francesco Lorusso muore colpito da un proiettile sparato dalla polizia. I manifestanti erigono barricate e la città resta in stato d’assedio per tre giorni, finché il ministro dell’Interno Francesco Cossiga invia in città i carri armati. A Parigi viene inaugurato il Centre Pompidou in onore del vecchio presidente della Repubblica francese Georges Pompidou. Ecco l’appartenenza dell’odisseo fiorentino e del Medici barese che nel 2016 rappresentano l’Italianità nel mondo. Anche il povero ministro alla cultura Franceschini modella tentativi di ripresa per il patrimonio artistico italiano promuovendo direttori e direttrici  museali. Eccellenti menti straniere abituate a lavorare la “Cosa” cultura, con devozione, capacità e rispetto. Ma l’abrogazione del carosello italiano non permette più il tenore e la tonalità felice che possedeva l’Italia del Grand Tour. Ormai quelle magnifiche generazioni che sapevano apprezzare il bello sono scomparse come scomparsi sono i grandi autori di coraggio sperimentale e educativo. Nel cinema il neorealista  Rossellini, De Sica padre ( che dio ci liberi dal figlio) e la matrice psico-astrattista del riminese  Fellini.  Nella musica Puccini, Pavarotti,  i New Trolls, Napoli centrale e Demetrio Stratos. Nell’arte Modigliani, Vedova,  Burri e nella letteratura Dante, Petrarca, Calvino e Tondelli. Punto. Siamo ora caduti nel fumetto di Quo vado. Volete vedere la cultura di Zalone il tamarro? Rispondete a questa domanda : cosa fanno in mezzo all’ autostrada tre paperelle?

Qua. Qui, Quo ……non ci sono piò ….  ah ah ah ah …..

 


‘Visioni altre’ per i Beni Culturali in Italia

di Vitaldo Conte

Il campo di appartenenza e azione dei beni culturali è molteplice, variegato. Ciò l’ho compreso fino in fondo nel mandare in giro (con modalità riservata) il documento iniziale di questo seminario “a porte chiuse” come un personale test. Intendevo “aprire” il mio pensiero a qualche parere di colleghi delle Accademie di Belle Arti, di critici d’arte e artisti. Quelli che mi hanno risposto lo hanno fatto in maniera generica, solo qualcuno ha espresso delle osservazioni specifiche. Quali sono dunque le pertinenze dei Beni Culturali? Quali possono essere oggi i suoi limiti in Italia? Quali potrebbero essere i nuovi strumenti idonei per la loro conservazione e diffusione? Attraversando la sua storia si può comprenderne la complessità, frequentemente ignorata. I beni culturali, che si contrappongono per definizione ai “beni naturali” offerti dalla natura, sono il prodotto delle espressioni della cultura. La cultura è, per propria natura, dinamica, anche quando si ricollega alla tradizione. Quella attuale tende a rapportarsi con i nuovi linguaggi, tra cui quello tecnologico. L’arte contemporanea, in tutte le sue espressioni, non può rifiutare oggi il rapporto con l’estetica, o meglio con la sinestesia, tecnologica, sia in chiave di congiunzione di linguaggio e sia in chiave di riflessione critica. La tecnologia tende sempre più a incamerare le spinte visionarie e immaginali dell’essere (la spinta verso gli estremi confini del conoscibile).Che la cultura non debba essere stagnante lo troviamo anche scritto nel manifesto di nascita del Futurismo del 1909: “Noi vogliamo liberare l’Italia dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri”. L’espressione futurista, oggi presente nei musei, è stata la prima avanguardia nostrana a imporsi in ambito internazionale nell’arte contemporanea. Per sprovincializzare la cultura italiana teorizzava la distruzione simbolica dei musei, intendendo liberarla dall’essere luogo di stagnazione. A differenza di chi intende oggi praticarla materialmente nel nome di un monoteismo culturale: magari da “riconvertire”, attraverso i reperti, in finanziamento per l’economia del terrore dell’Isis (di cui nel 2014, secondo stime approssimative, 28 miliardi di dollari provengono dai reperti archeologici di grande valore “trafugati”). Gli studiosi che fanno riferimento alla Scuola Romana di Filosofia politica e al movimento di pensiero della Nuova Oggettività hanno apprezzato la sensibilità del ministro Franceschini quando, unico ministro dei Beni Culturali in Europa, ha disposto che fosse posta la bandiera nazionale a mezz’asta sui musei italiani in segno di lutto per l’efferato assassinio del prof. Khaled Asaad, sovraintendente al sito archeologico di Palmira. Questo episodio si aggiunge ad altri analoghi, occorsi in diverse parti del mondo. Nonché la recente sparizione, in Libia, della Venere di Cirene, restituita a suo tempo dall’Italia, assieme agli infiniti altri scempi compiuti su opere d’arte del passato, appartenenti ormai, anche per comune sentire, al patrimonio dell’umanità.

Le norme internazionali sui beni culturali sono essenzialmente accordi che vogliono la salvaguardia dei suoi patrimoni in occasione di eventi bellici, sostenendo che gli attentati a questi costituiscono una violenza al patrimonio dell’intera comunità internazionale. Alla Convenzione di Parigi(1970) l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura definiva in tale ambito come beni culturali quelli “designati da ciascuno stato come importanti per l’archeologia, la preistoria, laletteratura, l’arte o la scienza” (art. 1). Un bene culturale si definiscemateriale quando è fisicamente tangibile, come un’opera architettonica, un dipinto, una scultura. Ma lo sono anche i manoscritti, le collezioni scientifiche, le collezioni importanti di libri o di archivi o di riproduzioni dei medesimi beni.

La convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale (2003)prevede anche il bene immateriale espresso da: tradizioni ed espressioni orali, arti rappresentative, pratiche sociali, rituali, conoscenze riguardanti la natura, le abilità artistiche tradizionali, ecc. Molto del patrimonio dei beni culturali in Italia oggi, che dovrebbe essere tutelato e valorizzato con il suo restauro, vive viceversa non adeguatamente protetto tra rifiuti, inadeguatezze, furti (come i recenti 17 dipinti rubati al Museo di Castelvecchio a Verona). I problemi quindi sono economici e strutturali: i beni culturali ricercano risorse che possano garantire a loro un’autonomia amministrativa; le aste per le acquisizioni di immobili storici talvolta risultano deserte. Il persistente limite italiano è determinato dalla complessità burocratica e disorganizzazione che scoraggia investitori e turisti: come nell’ultimo agosto a Pompei il visitatore pagava il biglietto intero per vedere il 30 per cento delle opere. Un’altra problematica è individuabile nelle contrapposizioni e ridefinizioni delle competenze (ministeriali, comunali) e di gestione. Ma anche in quelle di lettura dei Beni Culturali: tra il Direttore (uno storico dell’arte) e il Sovraintendente con le sue “visioni” archeologico-architettoniche.

Il quesito di partenza di questo seminario è nella constatazione che, nel 2011, il Museo del Louvre a Parigi ha “incassato” da solo quanto tutti i musei italiani messi insieme. Una possibile risposta è anche nella constatazione che il Louvre è un museo che ha un corpo multiplo, oltrepassante una specifica raccolta storica. Per cui le strutture museali italiane dovrebbero sempre più aprirsi nelle proprie panoramiche espositive e di proposta contemporanea, come quelli di rapportarsi per contiguità con gli altri linguaggi della creazione. Molti turisti stranieri pensano talvolta che la nostra arte si fermi al Barocco: come mi ha sottolineato un giovane critico d’arte interpellato.

Non viene però adeguatamente esplicitato che i Musei Vaticani a Roma, quindi comunque in Italia e forieri di sviluppo turistico per la nazione, risultando il museo più visitato nell’Europa comunitaria con 6.200.000 visite e sono diretti da un italiano.

Per il non profit italiano può aprirsi però oggi un mercato esteso ora che il ministro Franceschini, con un decreto firmato recentemente, ha stabilito che i Beni Culturali possono essere affidati in gestione a privati senza fini di lucro se sono chiusi per mancanza di risorse o personale o “non adeguatamente valorizzati”. Nel testo del decreto è specificato che possono essere affidati in concessione d’uso “i beni culturali immobili del demanio culturale dello Stato per l’utilizzo dei quali attualmente non è corrisposto alcun canone e che richiedono interventi di restauro”.

Nell’ambito delle problematiche irrisolte dei Beni Culturali in Italia c’è quella del non-riconoscimento universitario (nonché dei finanziamenti per la ricerca) delle Accademie di Belle Arti. Quella di Roma, concepita alla fine del Cinquecento (denominata in un primo momento “di San Luca”) per riunire in un unico contesto le tre arti (pittura, scultura, architettura), crebbe talmente tanto da divenire modello per analoghe istituzioni che sorsero in tutta Europa tra il XVII e XVIII secolo. Le Accademie non sono solo detentrici di un patrimonio storico-artistico di assoluta rilevanza (archivio, gipsoteche, pinacoteche, corsi di restauro, ecc.), ma anche perché sedi di una attiva produzione contemporanea, costituita da ricerche e didattiche allargate (museali, espositive, ecc.) che sono esse stesse beni culturali. È assolutamente necessario, in questo momento così importante per la “sopravvivenza culturale” delle Accademie, porre l’attenzione a questa problematica: l’Italia (a differenze degli altri paesi europei) non riconosce il ruolo centrale svolto nell’ambito dei Beni Culturali dalle Accademie di Belle Arti.

Le strutture museali in Italia dovrebbero essere amplificate nelle loro accessorialità comunicative, soprattutto attraverso la strumentazione multimediale e la digitalizzazione delle medesime. La tecnologia deve diventare complemento della comunicazione tradizionale e strumento per coinvolgere maggiormente il pubblico. Questa può amplificare il messaggio culturale, offrendo al fruitore altre opportunità per vivere il museo rispetto all’estemporaneità della visita. Ciò può determinare unaintelligenza-visione che sintetizza nel proprio corpo i contributi di varie specificità (istituzioni, musei, esperti, curatori, ricercatori, innovatori) per “costruire” le possibili amplificazioni digitali dei musei italiani. La tecnologia applicata può rendere un museo sempre più accessibile. Questo è digitale quando il contenitore di un social e di un sito eguaglia il contenuto di un museo. La comunicazione si allarga non solo grazie ai suoi canali ma anche attraverso il miglioramento del modo di comunicare che dovrebbe far sentire il visitatore di qualunque età al “centro” della fruizione.

Un esempio di “apertura” è rintracciabile nel progetto della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma a Castro Pretorio, coordinato insieme a Google. Si propone di digitalizzare volumi rari e pezzi unici, anche del Cinquecento e Seicento, entro il 1874, dal valore inestimabile sul mercato librario antiquario. “Ma il progetto Google è solo uno dei tanti – rileva Paolo Conti (Corriere della Sera, novembre 2015) – che riguardano la Biblioteca nazionale centrale, autentico luogo di eccellenza del nostro Paese nell’applicazione delle nuove tecnologie”. È in programma anche una mostra di architettura realizzata con la ricostruzione virtuale attraverso progetti firmati da grandi architetti contemporanei.

C’è da segnalare in merito il progetto aperto del MuD Museo Digitale, che
parte dal giugno 2015. Questo nasce con l’obiettivo di aumentare le possibilità e la promozione dei musei italiani in ambito digitale, potenziando consapevolmente l’aspetto tecnologico della comunicazione per valorizzare il Patrimonio Culturale a livello nazionale e internazionale. Il MuD segue le linee guida della riforma dei Beni Culturali che rafforzano le politiche di cooperazione culturale con l’estero, aprendo il confronto con l’Europa sul tema del digitale. Al fine di rendere realtà questa evoluzione del settore museale, il MuD apre il dialogo con le nuove tecnologie, anche con colossi del web come lo sono Google, Facebook e Twitter.

La recente nomina di 20 direttori dei musi italiani, tra cui 7 stranieri, ha suscitato ricorsi e polemiche con la critica di essere uno spot mediatico. Il mondo della cultura è però internazionale, non può avere confini. E in più la scelta del direttore straniero può determinare la possibilità di attrarre sponsor internazionali. Non sempre però gli stranieri sono più attrezzati dei nostri: talvolta un funzionario interno della Sovraintendenza può valere come o di più di un curatore straniero, che comunque dovrà rapportarsi con i disservizi nostrani.

Una possibile critica da fare a queste nomine può essere formulata proprio in base alle esigenze proposte dalla nuova “visione” del ministro, mirante a incrementare il rapporto arte-turismo-cultura. Individuare cioè, per gli aspiranti nuovi direttori, anche competenze “futuribili” associate (più specificatamente cyberculturali) e di managerialità pubblicitaria, in quanto questi risultano essere tendenzialmente degli accademici, talvolta con qualche possibile conflitto d’interesse.

Forse si dovrebbero ricercare degli intellettuali consapevolmente “visionari” per i Beni Culturali in Italia per far decollare la Cultura e il Turismo come Imprese produttive e non semplice operazione di decorativismo o spot culturale. Senza un vero cambiamento l’Italia si potrebbe ritrovare sempre più su posizioni di “provincia” rispetto all’Europa e all’Altrove emergente.

I Beni Culturali oggi in Italia, per superare la crisi, necessitano di un allargamento di visione transculturale e translinguistico, che può divenire incremento di Turismo e di Economia, per lo spettacolo della cultura che vuole una narrazione e fruizione “a tutto campo” della sua storia, per divenire presente e futuro dei Beni Culturali.

 

VITALDO CONTE

 

Ho letto il tuo articolo uscito su Il Borghese, gennaio 2016. È centrato anche per un rinnovamento dell’Accademia delle Belle arti dove tu insegni.

Quanto sostieni, l’ho proposto anch’io in altro modo da docente di Estetica e di Storia del restauro di corsi per il restauro fin dal lontano 1987 — (la testimonianza rimasta è poca, però vi è prima un testo del 1994 pubblicato in una collazione a cura di Danila Bertasio, e poi un saggio più lungo scritto nel 1997 e pubblicato nel 2006 in un mio libro).

Voglio chiarirti che nel discorso “conservazione e fruizione di un Bene culturale”, ci sono due problematiche una pratica e una teorica — quest’ultima è quella più vicino alle tue teorie, mentre l’altra compendia quanto tu affermi.

(1) Pensavo fin dal 1986 che i programmi di computer, che già dal 1992 si producevano anche per il restauro, avrebbero dato uno sviluppo innovativo alla conservazione dei Beni culturali. Si avrebbe avuto un maggiore controllo dello storico dell’arte su tutti i tipi di intervento.

Ad esempio, in un restauro dipinti lo storico dell’arte, con le tecnologie informatiche e le indagini biologiche e fisiche sulla materia dell’opera avrebbe potuto meglio concentrarsi sulla immagine conservata e trasmessa nei vari periodi storici. In questo modo egli avrebbe avuto elementi per risalire alle varie tipologie di interventi di restauro che si sono succedute nel tempo e decidere l’intervento di restauro da fare, analizzate le problematiche del dipinto. Lo storico dell’arte, insieme al restauratore, oggi può ricostruire, anche per mezzo di programmi sulla gradazione di colore, ad esempio, la figuratività di un’immagine, e inoltre scegliere con quale colore adeguato andrebbe riempita una lacuna, perfino simulando prima sul computer le varie fasi di un intervento di restauro. In questo modo si velocizza un restauro — ma non so se diventa meno costoso per l’acquisto ancora alto dei programmi del genere e di un insieme di professionalità che occorrerebbe in un laboratorio di restauro che si rispetti.

Lo storico dell’arte comunque potrebbe esercitare un maggiore controllo sull’opera e sui suoi passaggi storici nonché decidere l’intervento da fare. Questa prima fase dà una conoscenza storica della materia dell’opera d’arte e dell’autore del dipinto.

(2) Veniamo alla parte attuale, su come produrre interesse sulla cultura del “bene” — e qui io direi meglio: sulla “esperienza della cultura del bene”.

Ti segnalo un esempio il MAV di Ercolano (Museo Archeologico Virtuale) con tutte le limitazioni presenti, e i potenziamenti e gli aggiornamenti che dovrebbero essere apportati a questo museo.

Le ricostruzioni virtuali e interattive credo che siano importantissimi strumenti innovativi di conoscenza e di esperienza che dovrebbero affiancare oggi tutti i siti archeologici.

Credo proprio che ci vorrebbero investimenti anche nella tecnologia e nella ricostruzione di “ambienti virtuali”. Investimenti che non sono nelle capacità progettuali di questo “miserabile” governo italiano — ma anche in quelli passati.

La cultura può trasformarsi in oro solo se si è in grado di trasformarla in esperienza conoscitiva, come in un film o in uno spettacolo. (Le Accademie e le Università dovrebbero iniziare a pensare dei seri investimenti in questo campo).

Attrezzare alcuni importanti Musei Università e Accademie di iper-computer almeno con virtualità a 3 D e con diaproiettori in ampie stanze e almeno a 300° della visione virtuale che sono accessibili a poco più di 45.000 €. Queste solo le prime attrezzature, poi ci sarebbe bisogno di tecnici che insieme a storici dell’arte e del costume, ricostruissero in modo “virtuale”, gli ambienti in cui si è prodotta un’opera o un monumento. E in ciò consisterebbe quella che possiamo chiamare la vera innovazione “turistica” del terzo millennio.

Credo in questo perché, a mio giudizio, il vero sviluppo futuro dell’arte consiste in ciò che s’intende oggi come nuova esperienza sensoriale. Tu hai segnalato ciò come ”aggiornamento” o “adeguamento” delle passate esperienze. La necessita che ci fosse anche un museo dinamico, utilizzando appropriatamente le teorie del movimento futurista nel tuo articolo.

Questo intervento sulla percezione e sui modelli della cultura, che tu hai acutamente sottolineato, è utile per divulgare come gli ambienti e i modelli di passate forme di “conoscenza sensitiva” presenti in un’opera d’arte, si modificano nei vari osservatori, o visitatori appartenenti a diverse epoche (George Kubler, La forma del tempo, 1970 — il cui testo pochi giorni fa ho trovato in internet però senza la postfazione di Previtali).

Veniamo a questo punto a stabilire ciò che è considerato veramente dinamico sia nella storia dell’arte contemporanea che nel museo oggi. Sono più di 250 anni  che la conoscenza sensitiva è stata posta a fondamento del racconto dell’opera d’arte; cioè, dal 1750, grazie a Baumgarten, noi dibattiamo dei cambiamenti nell’arte attraverso i modelli della nostra conoscenza sensitiva, proprio a partire dalla definizione del campo dell’Estetica. Filosofi, semplici cultori d’arte, o teorici dell’arte e poi critici d’arte per oltre due secoli e mezzo hanno dibattuto sull’artistico, attraverso la definizione poetica, fisico-visiva o fisico-musicale, filosofica o artistica in generale o semplicemente critica di come si forma la conoscenza sensitiva dell’arte o delle arti.

La distruzione della visione di una “conoscenza sensitiva statica” (leggi rappresentazione) fu messa in crisi proprio dalle avanguardie storiche; cioè dalle teorie futuriste prima e poi da quelle dadaiste e surrealiste; per questo motivo, sono con te, quando affermi che la conservazione delle opere nei musei deve adeguarsi alle nuove forme di esperienza, che io definisco di cognitività sensoriali. Queste cognitività sensoriali, oggi, sono prodotte con maggiore efficacia emozionali dalle neo-tecnologie dell’informazione. Attraverso l’uso degli strumenti informatici applicati a sensori, i nostri sensi possono essere immersi in spazi e in visioni interattive dinamico-virtuali, che producono anche “esperienze” che noi definiamo “artistiche” (John Dewey, Arte come esperienza, 1931).Ecco che abbiamo alla fine due mondi che fanno partecipare un osservatore al “Bene culturale”, e che sono inseparabili: Da una parte il reperto del passato che evoca una conoscenza sensitiva di una rappresentazione che va conservata;

dall’altra parte l’emerge di emozioni attraverso lo stimolo delle attività cognitive sensoriali, che impressionano il visitatore anche meglio di una “rappresentazione”. La configurazione di un ambiente relazionale induce un osservatore-percettore a fare un’esperienza pregnante di conoscenza, a cui il suo corpo ricorda di aver partecipato anche se in modo virtuale.

Questo insieme di rappresentazione e configurazione di relazioni in un ambiente virtuale costituirà l’interesse principale per la fruizione dell’opera d’arte NEL FUTURO.

Opere d’arte che saranno “contestualizzate” nelle forme di conoscenza sensitiva proveniente dal passato, ma che formeranno anche le esperienze cognitive sensoriali dinamiche e in evoluzione del futuro di osservatori-fruitori. Solo in questo modo l’opera d’arte può trasformarsi in “oro” nei futuri musei che saranno sempre più un incrocio tra l’opera reale e la sua ricostruzione in un ambiente sensoriale-virtuale.

Un abbraccio

Giuseppe Siano