Il profondo omaggio di Luigi Fabio Mastropietro in ricordo di Antonio Picariello.
LETTERA PER UN ESSENO (in occasione del primo genetliaco della sua seconda vita)
Ma ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo Spirito è vita e pace (Lettera ai Romani 8,6)
Oggi 15 maggio 2021 è il primo genetliaco della tua seconda vita che coincide con la rinascita della tua pagina criticart.it. I tuoi affetti più cari mi chiamano a scriverti di nuovo, dopo quasi un anno dall’ultima volta. Quel venerdì di un anno fa, la bestia cieca del dolore mi sbarrava il passo e ti scrissi: Caro Antonio, ungo le pietre sulla soglia del tuo passaggio ma non mi è di nessun conforto. Mi sforzo di pensare che il tuo sacrificio ha inciso sulla terra arida un segno che se non possiamo vedere con gli occhi sordi possiamo almeno toccare con le dita mute, ma il dolore è una bestia cieca che mi sbarra il passo. Vorrei poter dire che questa terra amara ti ha amato, ma non posso. Farei un torto a tutti coloro che ti hanno amato. Antonio, il Critico d’arte dell’isola de la Réunion, l’Intellettuale organico del mondo perduto nel buco nero di se stesso, il Maestro invisibile che solo gli Ultimi vedono, è un uomo perseguitato dal pensiero dominante e abbandonato ai margini della vita dalla sovrana minorità. La tua aura colore dell’oro, la tua bella voce calda, la tua generosità di altri tempi, il tuo coraggio di guardare in faccia il demone, l’impatto rivoluzionario della tua cultura sincretica, la tua dolorosa ossessione per la bellezza, tutto lo straordinario patrimonio di armonia e di follia che stai gridando senza aprire bocca è veramente insopportabile per questa terra. Uno sguardo troppo trasversale per meritare attenzione da queste parti. Una comunicazione troppo ardita per poter essere tradotta nella lallazione balbettante della intelligencija locale. Una narrazione troppo alluvionale per poter essere liofilizzata nelle pillole programmaticamente scaricate dai chierici nostrani. Quale uomo che sappia di esserlo, quale intellettuale che sappia di esserlo, può sopravvivere nel deserto per più di vent’anni senza impazzire oppure senza maturare un bel male incurabile? Caro Antonio, questa terra amara ti ha prima esiliato e poi ti ha ucciso. Nonostante il tuo coraggio, nonostante la tua valorosa resilienza. Un solo pensiero può alleviare il dolore. Ovunque tu sia adesso, quel posto è comunque meglio di questo. E ancora oggi, se questa mia fosse un epitaffio, caro Antonio, reciterebbe Hanno ammazzato Antonio, Antonio è vivo. Ma non è un epitaffio. Se invece fosse un elogio post mortem, si intitolerebbe L'uomo che cadde sulla terra di Molise e allora potrei scrivere che tu in questa terra sei più alieno di Thomas Jerome Newton, il misterioso extraterrestre proveniente dal pianeta Anthea. E allora dovrei scrivere che anche tu, come il protagonista del romanzo di Walter Tevis e poi del film di Nicolas Roeg, hai dedicato la tua vita a un compito ineffabile quanto titanico, inventando scuole di pensiero artistico e movimenti internazionali come Archetip’art, ideando e curando eventi culturali e mostre d’arte in Italia e all’estero, raccogliendo la devozione di tanti artisti e il consenso degli intellettuali più percettivi intorno a un “manifesto” comune, attraverso la tua opera di critico d’arte “militante” e di appassionato docente e, non ultimo, di semiologo che fa del sincretismo la chiave di lettura e la cifra di comunicazione del mondo. Ma questo non è nemmeno un elogio post mortem. Non lo è, semplicemente, perché tu non sei morto. I morti scompaiono e invece tu sei ancora qui al mio fianco. Tu sei ancora vicino a me e a quelli che ami, hic et nunc. Continui ad amarci come noi ti amiamo e a sostenerci nel nostro cammino ancora più che nel passato. Non possiamo più toccarti, è vero. Ma se chiudiamo gli occhi possiamo ancora vederti sorridere limpidamente e se li apriamo possiamo ancora ascoltare la tua bella voce calda e profonda, sintonizzata sulle frequenze armoniche dell’universo. Caro Antonio, questa è una lettera al mondo, quel mondo che tu ancora abiti con il tuo insegnamento, seppure sui piani sottili dell’Essere. È uno sguardo al volo che tu stai compiendo, librandoti nei cieli immensi dell’origine, nel tempo senza tempo, quando “a noi bastava solo l’amore / il resto ci poteva mancare” *. Una lettera aperta e un’invocazione, affinché questa civiltà moritura possa ancora nutrirsi di te e confidare nel tuo apostolato di bellezza per mantenere aperta una crepa di luce nella tenebra che la opprime. Sei emerso dal tuo viaggio al termine della notte, recando la luce del sole negli occhi e stai illuminando il mio cammino e il cammino degli altri che hanno la buona sorte di incontrarti, mentre combatti i tuoi demoni con il sorriso sulle labbra e lo sterno spalancato sull’abisso, salvato dalla tua misericordia per la miseria degli uomini. Procedi ancora al nostro fianco nella fitta nebbia del presente, consumato senza un lamento dall’inedia di questa terra avara e nutrit o senza sosta dalla sacra bellezza che l’uomo votato al suicidio sognando ha resuscitato nell’arte. Molise non amour, scrivi, rispondendo sempre con l’amore al deserto che ti assedia e al demone dell’acedia che ti rinnega. Comunque prima c’era, scrivi, rivelando che nessun letto di contenzione di nessuna galera sprofondata nella dannazione può mai cancellare la potenza salvifica dell’arte, perché nell’arte vive la residua vibrazione siderale del mistero dell’Archetipo, quando l’Uno si divide in Due per farsi luce e ombra, materia e spirito. E ci sono visioni antiche che risvegliano la memoria collettiva dell’uomo, “luoghi dove il linguaggio sublime parla silenzioso al destino delle persone” e dove le cicatrici si riaprono e riprendono a buttare sangue. Con il tuo cuore santo tu puoi vedere questi santi luoghi. Tu puoi vedere i colori del mondo. I colori del deserto e delle città di sabbia. I colori del nulla. E le pietre dello uadi. Ai tuoi piedi, nel letto della terra scorreva un torrente, ora c’è solo il suo canto. Dove era l’uomo ora solo un’impronta di polvere. Questa sera, mentre ti scrivo, un vento teso e rabbioso rade al suolo un cielo opaco e assente di un maggio degenere. Ti vedo sorridere sornione mentre mi racconti che il silenzio è solo il rovescio della parola e che il creato è come un magnifico tessuto broccato, tempestato di luce e di sangue. Solo rovesciandolo si può scoprire la complessità del disegno e dell’intreccio dei fili. La vita è “ordine sorretto dal disordine”, mi dici, mentre mi guardo le mani e mi accorgo che sono diventate vecchie come la pietra del fiume morto ma che le dita sono ancora feraci come quelle di Amore, il giovane schiavo di La Réunion, capace di fecondare i fiori di vaniglia. E allora spengo la lampada e chiudo gli occhi. Dovunque ci troviamo, sulla sabbia del Sahara o sull’asfalto di una città perduta, sei al mio fianco. Mi siedo e distendo i palmi delle mani davanti al viso. Per i miei figli lontani o per i figli che non ho mai avuto o forse solo per me stesso, comincio a raccontare. La notte scenderà presto e bisognerà accendere un fuoco perché il mio racconto si nutra e le bestie si mantengano fuori del cerchio. Anche se “la mia è una razza che fa paura davvero”, spremerò ancora una volta la vita dal mio cuore e compirò una volta ancora “il sacerdozio dell’archeologo, l’atto liturgico che unisce il tempo dei viventi con il già vissuto”. Ora sento arrivare i miei demoni in punta di piedi e in silenzio unirsi al cerchio. Il sole è tramontato e non distinguo i volti ma ricordo i nomi. Posso nominarli uno ad uno e intrecciare finalmente tutti i fili della trama del mondo. In fondo è per questo che sono qui, anche se non ci sono mai stato. Mentre il mondo soffoca, resto in silenzio. Acquattato tra le coltri iridescenti dell’ultimo cielo, aspetto. Aspetto che arrivi, trascinandosi sulla rena bagnata, le scarpe di stracci, incatenato per il collo all’infermiera bendata. Aspetto di vederlo cadere in ginocchio e ridere in faccia al mare, più forte del suo mugghiare. Aspetto di vederlo tagliare con il suo indomabile sguardo quella luce così dolce e nera. Aspetto di vedere il bagliore dei suoi occhi per cogliere il corpo del dio che si muove. Ma il dio si nasconde nella sua lingua muta e viene fuori sempre alle mie spalle con un fremito incendiario. Il vento alla fine si è placato. Dovunque mi trovi, riapro gli occhi e non mi importa più del dio, ormai. Ho letto il suo libro e anche se non posso vederlo, posso respirare il suo fiato dentro di te.
Luigi Fabio Mastropietro
* dalla canzone “Cieli immensi” – autore Fortunato Zampaglione.
(Lettera ad un Esseno di Luigi Fabio Matropietro)