Agosto 2007


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Ambasciatrice dell’Italia nel mondo

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il tema della mostra, a me sta molto a cuore. Per questo ho preso la decisione di realizzare un mio progetto.
Una sedia, posta su una sfera bilanciata allo stesso tempo è boa di salvataggio, individua e segna dei luoghi cari, intrisi nella nostra memoria ed in quella del luogo stesso.
E’ forse il rapporto tra visibile ed invisibile l’alchimia urbana, l’alchimia vitale?
Nel film di Tarkovsky, Stalker la zona è il luogo non luogo,  “non è il luogo a cambiare, ma siamo noi in continuo mutamento”.
L’instabilità della sedia, indica la precarietà dell’ospite che visita il luogo. L’ospite non precario invece è quella persona, dotata di un particolare equilibrio rispettoso del luogo a se stesso caro, sedendosi comodamente.
Credo che il luogo sia meditazione.

Grazie Venturini

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“Il cyborg salta il gradino dell’unità originaria, dell’identificazione della natura in senso occidentale…nella cultura scientifica americana della fine del Ventesimo secolo, il confine tra umano e animale è stato ripetutamente abbattuto…il linguaggio, l’uso di strumenti, il comportamento sociale non stabiliscono più in modo convincente la separazione tra umano e animale…negli ultimi due secoli, biologia ed evoluzionismo hanno fatto degli organismi moderni un oggetto di conoscenza e contemporaneamente hanno ridotto il confine tra l’umano e l’animale a una debole traccia re-inscritta nella battaglia ideologica tra vita e scienze sociali”

(Gilles Deleuze – Felix Guattari, L’anti Edipo,1972)

“Io riconosco un vero poeta dal fatto che frequentandolo, vivendo a lungo nell’intimità della sua opera, qualcosa si modifica in me: non tanto le mie inclinazioni o i miei gusti, quanto il mio stesso sangue, come se un male sottile vi si fosse insinuato per alterarne il flusso, lo spessore e la qualità…perché il poeta è un fattore di distruzione, un virus, una malattia ed è il pericolo più grave, seppure meravigliosamente indefinito, per i nostri globuli rossi. Vivere accanto a lui significa sentire il sangue impoverirsi, significa sognare un paradiso dell’anemia e udire, nelle vene, scorrere le lacrime…”

(E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, 1949)

Il corpo si guarda allo specchio e non si riconosce. Troppe ferite e troppo profonde. Troppi i segni della scomparsa di organi. Troppe le protesi tecnologiche.  Il corpo contemporaneo è un nomade in fuga da se stesso, è un corpo disseminato senza centro, è il corpo del mutante tecno-genetico che si tende e si dilata fino al collasso identitario.

Da sempre il corpo è l’area critica, la parte viscida, la zona di frizione del controllo e della mutazione, lo spazio sul quale si (in)scrivono miti e narrazioni, linguaggi e memorie, malattie e rituali di passaggio. Nel corpo si insuffla sapere per renderlo interfaccia del mondo e inerme significato dell’esistere. Il corpo è libertà di fuga e al tempo stesso possibilità di punizione, è il renitente ricettacolo dell’ideologia. Sulla superficie trasparente del corpo si graffita la pelle dell’universo, si marchiano i codici sociali di contenzione e malattia.

Il corpo proto-industriale, fisico e massimalista, ha lasciato il posto al corpo postindustriale, virtuale e minimalista, imbrigliato nei flussi incessanti di informazione e di controllo. Ne è espressione privilegiata il corpo-cyborg, atto in corpo della tecnologia e del desiderio, paranoia cognitiva e territoriale di corpo animale e macchina. Tempio istituzionalizzato della crisi della modernità, in quanto specchio fluido della modernità liquida. La sua massima evoluzione è il cybionte derosnayano, immersivo-connettivo leviatano di corpi e reti telematiche che segna definitivamente la fine delle differenze tra il corpo e il mondo esterno, costruite attraverso i processi di civilizzazione. Così tramonta anche il fondante contrasto ideologico tra natura e cultura. Con la fine della differenza funzionale tra fisico e non fisico, muore la diversità tra uomo animale e macchina.

I corpi cybiontici sono corpi-nodo tecno-esistenziali in continua mutazione e alimentano ancora la relazione ambigua con la malattia e la mutazione stessa. Da sempre gli organismi mutano e mutando si evolvono, ma cellule mutagene sono anche quelle del cancro. Questa terribile anfibologia universale si muta oggi in anfibiologia globale e fa sì che i fiumi della vita e della morte scorrano nello stesso letto.

Categoria superiore del processo di scomparsa del corpo è l’ibrido che, attraverso la sua ambigua collocazione nella scala biologica, cancella la linea d’ombra tra umano e animale. L’organismo ibrido nasce dall’incrocio fra antropomorfo e zoomorfo, spirituale  e carnale, identità e alterità, ragione e istinto, civile e primitivo. L’ibrido è la convivenza dell’alto e del basso, dei meridiani opposti che attraversano la cartografia dell’uomo. È la contraddizione che svela un insanabile conflitto, sul quale si fonda buona parte della cultura occidentale e che deriva dalla rimozione dell’istintualità del corpo attraverso i meccanismi di civilizzazione. L’animalità è prima di tutto alterità e l’uomo-animale è portatore dell’“assoluto naturale”, fatto di violenza e sessualità primigenia, di arcadia e morte (caratteri incarnati dall’olimpo semidivino della mitologia classica e dai bestiari medievali). Ma l’animalità è anche prossimità, è parte in gioco del corpo, prova della schizofrenia del corpo “civilizzato”. È luogo dell’inconscio, ritorno del rimosso, metafora della realtà, in un contatto corporale deflagrante che sbriciola definitivamente l’identità del corpo post-industriale.

La progenie di Echidna e Tifeo ha popolato la terra di sfingi, arpie, idre, chimere, gorgoni, centauri, sirene, fauni, meduse, satiri, sileni, tritoni, minotauri, manticore, uomini-uccello, dei dalla testa di elefante e di sciacallo. Perché, come insegna il Phisiologus di Alessandria d’Egitto, bestiario greco protocristiano del II secolo d.C., il mondo è una foresta di simboli, abitata da bestie favolose che incarnano i significanti di questi simboli e rinviano a realtà filosofiche e morali altre. Quella stessa cosmogonia mostruosa che vive nell’arte visiva di artisti come Rodin, De Chirico, Kahlo, Savinio, Bacon e tanti altri e nella quale Gilles Deleuze vede il lucido terrore dell’uomo contemporaneo di perdere il controllo del suo corpo istintuale.

Ma il corpo contemporaneo è malato allo stadio terminale e occorre cambiare la propria carne per essere liberi di andare altrove.

Con questo numero, AltroVerso conduce il lettore nei luoghi dell’altrove, nel mondo dove agisce il perduto dell’uomo, nella zona d’ombra ove compare il “disagio della civiltà”, nel deserto dell’anima dove il surriscaldato mito simbolista scalpita con i centauri di Bőcklin, Klinger e Von Stuck.

Anche nell’era del post-umano, l’animale, elemento della comunità cosmica, deve essere ucciso perché l’uomo possa vivere e deve essere resuscitato nel corpo perché l’uomo possa espiare. L’umanimale continua a vivere nello spazio interstiziale del mondo, nel tempo “meridiano” di Roger Callois: quando il sole è allo zenit e il tempo è sospeso, quando la ragione è intorpidita e i sensi sono più accesi, quando il magma dell’Es ruggisce sotto la crosta del quotidiano, è proprio allora che l’uomo incontra faccia a faccia i propri demoni.

Nei luoghi “meridiani” di AltroVerso, ai confini del mondo eppure così dentro il mondo, vivono i corpi transitati di Chiara Moimas, i corpi transustanziati di Giancarlo Civerra, i corpi violati di Massimo Zaina, i corpi trasmigrati di Valentino Campo, i corpi ierofanici di Stefano Calzi. E infine i tredici dolenti corpi in corso di mutazione di Denis Brandani ed Ettore Frani.

Perché la letteratura è mutazione, così come lo è l’arte, capacità di mutare la percezione per emendare il mondo, tecnica di modificazione del corpo del reale. In ogni forma letteraria – come anche in ogni forma teatrale – la creazione transita da un eidos all’altro, con una mutazione di corpo e di segno, con il corpo che si fa segno, con l’incarnazione di una nuova unità soma-sema.

Fino all’ultima mutazione, quando il poeta-virus di Cioran comporrà la sua opera definitiva, offrendo alle telecamere di Internet la decomposizione del proprio corpo.

AltroVerso   http://www.altroverso.splinder.com/

Caro Antonio
Che ne pensi del mio intervento sulla arte ed estetica topologia per le opere di Cardini? La stessa che usai per Nino, ma quella di Cardini è in ambiente e quella di Nino è sul piano della tela geppino- ps (fa’caldo e, sei il primo a saperlo, hanno incendiato anche il verde della montagna di fronte casa mia)
In occasione della performance topologica di Marco Cardini del 25 agosto
Il racconto artistico nelle due performance presentate da Marco Cardini alla ex discoteca Flamingo vico Sarosa di Laigueglia (Sv) è di carattere topologico, con questo termine faccio espresso riferimento a tutti gli studiosi che si sentono continuatori del discorso sulla teoria della forma della Gestalt. In particolare a quelle teorie che fanno espresso riferimento a Kurt Lewin, uno psicologo tedesco emigrato negli Stati Uniti, che fu professore di psicologia infantile alla Jowa University e che ha iniziato a dare i riferimenti sulle relazioni umane in base alla psicologia topologica. Gli studi dello psicologo si sono arricchiti anche dei termini della matematica topologica, e hanno dato nuovo impulso alla teoria della forma, ricordo qui che Lewin ha sviluppato gli insegnamenti di Wolfgang Köehler, suo maestro di Gestalt-psycologie all’Università di Berlino.
Cardini in queste performance non s’interessa di offrire riferimenti per costruire un racconto che si basi sulla fenomenologia delle forme, cioè di dare relazioni per trovare nessi logici tra le forme presenti in un ambiente relazionale. Sappiamo, infatti, che la forma fenomenologica può essere organizzata in un racconto, questo, tra l’altro, è molto più diffuso di ogni altro nell’arte coeva e, pertanto, potrebbe, anch’essa (forma fenomenologica), strutturare un racconto cibernetico, —Marco ha anche costruito per Laigueglia altri collegamenti narranti formali, interpretabili con il racconto etero-fenomenologico, e che fanno bella mostra di sé nella Galleria Sangiorgi dallo scorso 25 agosto al 23 settembre a Piazza Preve 14. Le opere di Marco in forma etero-fenomenologica sono opere visive e rientrano nel tema da me prescelto con il titolo di «isole logico-formali» 1, 2 e 3.
Non si desidera affrontare in questa sede perché è opportuno che l’interpretazione delle forme dell’arte abbiano bisogno sempre meno di un’analisi solo fenomenologica e sempre più di allargare il punto di vista all’analisi etero-fenomenologica, ma ci si vuol soffermare anche sulle comuni finalità di prodotti artistici ottenuti attraverso o una performance o un oggetto artistico, per rilevare gli stessi principî relazionali e, nel caso di Cardini, si fa espresso riferimento alla comunicazione o sovrapposizione interattiva di informazioni tra uomo e macchina, per una nuova forma di organizzazione della vita e dell’ambiente.
La performance di Marco Cardini consiste nel far muovere forme geometriche e forme irregolari  nello spazio costruito da bit del computer, le cui immagini in movimento costituiscono relazioni in un ambiente proiettato su un grande schermo. La sovrapposizione e intrusione nello spazio virtuale [qui inteso come simulazione algoritmica alias di procedure] dei movimenti dell’artista performer, attraverso le riprese di una telecamera, mette in relazione le sue forme-movimenti con altre forme o dati elaborati dal programma del computer — questo costruito dall’artista insieme al laboratorio di informatica del CNR di Pisa diretto da Leonello Tarabella — intervenendo su alcuni sviluppi logici, organizzati in forme e già predisposti col programma con delle variabili.
L’azione performativa di Marco segue uno schema di racconto interattivo topologico che nasce proprio dalla interazione uomo-macchina. Egli si chiede: in che modo organizza il nuovo racconto topologico nello spazio-tempo del computer, riportando eventi e impressioni di un uomo ripreso da una telecamera sullo spazio logico del computer, senza la composizione di un racconto formale? E come si coglie la dinamicità dei movimenti?
Il campo di relazione e di formazione di un racconto topologico sono le strutture ambientali, ovvero l’ambiente e lo spazio strutturati in un modo ben determinato. Questi elementi (ambiente e spazio) diventano principî che influenzano la persona; in questo modo si mette in parentesi la psicologia della forma della Gestalt, con cui si poneva l’attenzione sulla persona, il cui principio attivo, per mezzo del suo essere struttura percettiva, procede ad organizzare spazî e forme.
Non si pensi che il campo topologico sia tutto centrato sull’ambiente, perché allora potrebbe diventare un luogo dove regna il determinismo, sia per la persona che per il suo comportamento. Cardini, che trasmette i suoi gesti sullo schermo-ambiente della macchina computerizzata, mostra come il mettere in relazione il linguaggio umano con quello della macchina da calcolo genera sempre un nuovo ambiente, i cui comportamenti interagiscono come strutture, e s’influenzano, causando un nuovo modo di presentarsi delle informazioni. Le immagini formali dinamiche così si muovono l’una dentro l’altra e scaturiscono l’una dall’altra.
Il comportamento diventa, così, una funzione della persona che coinvolge un ambiente ulteriore, in cui s’incontrano le interattività dell’uomo e della macchina: l’uomo e la macchina s’incontrano e finalmente iniziano un racconto scritto in comune. Vi è allora il riconoscimento di una filosofia, di un’estetica e di un’arte.
La persona nuova, che riveste un carattere topologico e che s’incontra in un ambiente logico-formale, non la ritroviamo delimitata da uno spazio astratto cartesiano o come una forma presente in uno spazio prospettico dell’arte figurativa e della rappresentazione, ma in base alla psicologia topologica ci troviamo into life space (nello spazio di vita) e, per ciò, è una struttura che si muove. Non è, quindi, organismo ben formato, ma solo strutture in movimento. La semiotica proporrebbe una semianalisi, ma qui sarebbe complicata per il sovrapporsi di tante e continue forme in movimento.
La persona topologica in movimento, in questo spazio di vita, è molto più di un semplice individuo. Essa si sente avvolta e coinvolta nelle relazioni dell’ambiente, e così diventa un organismo storico di nessi che appaiono e scompaiono. Nell’affermazione «Ogni parte dipende da ogni altra parte» è contenuta la continuità della psicologia della forma, ed è in essa che si riconosce la psicologia topologica.
Solo dopo la definizione di spazio topologico, si può comprendere come Marco Cardini nelle sue performance organizza il suo un racconto: questo costituito da spazi interni che si muovono e procedono a costruire rapporti e relazioni fino a dei confini. In questo modo la natura fisica sociale concettuale è indotta a disegnare e ad interagire con regioni (lo spazio interno ad un confine), con frontiere (le barriere dentro la regione) e seguono gli impulsi, le forze e i movimenti costruendo relazioni interattive.
In questo modo si costruisce così quella interazione tra l’ambiente umano e quello del programma della macchina e si crea il nuovo racconto estetico topologico, che scaturisce da questo incontro relazionale.
Non vi è ancora predisposto nel programma l’aggiustamento strutturale della macchina, ma con l’elaborazione del programma, anche la macchina potrebbe scegliere tra più percorsi autonomamente il suo e interagire con la performance dell’uomo.
Marco Cardini usa spesso nelle sue performance le curve di Jordan (la curva di Jordan è una linea chiusa che non interseca se stessa, e questo la fa equiparare alle linee di frontiera che separano le regioni interne da quelle esterne). Altro concetto fondamentale della psicologia e matematica topologica è la connessione, che è una linea che collega due punti dello spazio (essa può essere interna o esterna, o intercettare la frontiera di  due regioni). Basta una configurazione circolare di due cerchi uno nell’altro, che diventano cerchi di Jordan con una semplice connessione (la connessione di Jordan è, infatti, una linea di frontiera che collega due spazi, o una regione esterna e una interna, cioè sempre due spazi). Marco con i suoi movimenti tra le regioni crea le sue connessioni.
La topologia, già analizzando questi primi elementi, possiamo dire che sia la scienza delle relazioni spaziali, ovvero ciò che lega le parti col tutto, ed è basata sul concetto di inclusione, ovvero di una parte che viene inclusa nell’insieme.
Il racconto topologico, così come lo configura Cardini, implica la relazione tra A e B e non importa se sia A parte di B, o viceversa; importante invece è l’operazione che definisce la relazione spaziale parte-tutto, gli intorni o ambiti spaziali, e, bisogna dire, inoltre, che questa operazione è la risultante di una somma intesa come intersezioni di regioni o campi spaziali.
Il dare impulso a immagini visive di rapporti spaziali in movimento, e farli scivolare in un insieme di messaggi sviluppati dall’organizzazione di un programma del computer che interagisce con movimenti generati dall’artista Marco Cardini, produce senz’altro un’emozione, o meglio, un «sentire» che ha il carattere di essere topologico.
La topologia è stata più volte usata anche da Gilles Deleuze a spiegare una nostra forma di percezione estetica, il cui concetto spaziale fondamentale è la regione linguistica, che è ogni insieme delimitato da un contorno (Deleuze, come i topologi, lo ha chiamato territorio, e la perdita del confine deterritorializzazione, per la creazione di un nuovo confine linguistico-strutturale).
Il contorno può essere indifferentemente un qualsiasi organismo complesso che si muove in un qualsiasi ambiente, esso stabilisce le regioni, in quanto i moduli psicologici (come ad esempio quelli letterari e di ogni altra organizzazione dei viventi) sono uguali ai moduli spaziali.
La persona e il proprio ambito di vita producono, spesso, gli stessi moduli relazionali. Il rapporto 2 a 1, o 3 a 2, o da 1 a 3, nella topologia sono equivalenti, perché per questa scienza non è importante la distanza metrica ma la connessione all’interno di una regione spaziale, o fisica, o sociale, o concettuale.
In una configurazione spaziale possiamo avere regioni chiuse, regioni aperte (o illimitate) e regioni limitate, inoltre possiamo avere regioni semplicemente o molteplicemente connesse, a seconda che vi sia un solo collegamento interno tra due punti del confine, o più collegamenti che dividono la regione o più regioni interne del confine.
La psicologia topologica di una regione è coordinata quando ogni spazio di vita si muove seguendo un insieme o gruppo sociale. In questo spazio-ambiente determinato il gruppo che si muove o compie locomozioni si connette ad altri ambienti creando relazioni interattive e, quindi, scambia organizzazioni e instaura comunicazioni; dà, cioè, una serie d’informazioni sulle proprie connessioni e relazioni d’ambiente.
Le performance di Marco Cardini, con le sue sonorità — altrove trattate —, si muovono in questa direzione, e i suoi transiti in un ambiente topologico-formale costruito dal programma del computer, fanno assistere a come le diverse nostre regioni, psicologiche e spaziali, interagiscono.
Le regioni che crea Marco si muovono per connessioni, ecco perché, ripeto, nello stesso ambiente della macchina, assistiamo al muoversi in simbiosi di gesti creati dall’uomo e di procedimenti algoritmici tradotti in frequenze dalla macchina. Siamo al primo stadio emozionale, ideato da un artista della nuova informazione topologica, in uno spazio logico costruito in un ambiente trans-umano, con cui ci si può connettere attraverso dispositivi. Possiamo dire, cioè, che si stanno cercando le prime connessioni per una interazione comunicativa tra il medium [mezzo] uomo ed il medium [mezzo] macchina per creare un ambiente emozionale comune, condivisibile dall’uomo e dalla macchina.
Cardini, pertanto, è da considerarsi anche nelle performance un artista cibernetico, alla ricerca di un nuovo spazio u-topico per le conquiste del racconto che si rinnova sempre e descrive la nuova sensibilità e il nuovo ambiente del letterario (qui inteso non solo come percettivo, ma ora anche logico-visivo, delle forme linguistiche).
Giuseppe Siano

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La città mi comprime.
(dalla serie l’invisibile specchio della negatività).
Mario Serra
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L’arte contemporanea risulta incomprensibile a chi non conosca la sua storia recente. Riesce davvero difficile per chiunque non abbia una discreta frequentazione capire in quale modo un determinato oggetto diventi arte e attraverso quali procedure di verifica.

La ricerca accademica negli ultimi decenni è cresciuta molto nell’indagine di questi processi di attivazione creando schiere di “procuratori” d’eventi e di mediatori culturali i quali, soprattutto nel libero contesto espositivo delle gallerie, si ingegnano di trovare sistemi di visibilità per le loro scelte. Queste modalità di selezione e di continuo aggiornamento hanno certamente aiutato il sistema dell’arte a raggiungere una visibilità ed una credibilità prima irraggiungibile. D’altra parte è pur vero che le professionalità create formativamente dalle istituzioni non avrebbero senso se private del territorio complesso e variabile del sistema mercantile, le gallerie d’arte dove accadono determinati eventi e che garantiscono una continuità produttiva agli artisti. Il problema reale della comprensione dell’arte contemporanea oggi quindi non è nella sua visibilità, poiché chiunque può rendersi conto di quanto essa appaia. Cattelan sulla copertina del magazine del Corriere della Sera non è un caso. La sua figura sigla nell’immaginario ed identifica il nuovo concetto d’artista a cui molto è concesso anche in termini di credibilità, laurea, mercato, stile di vita. Ogni settimanale che si rispetti produce molti servizi sull’arte contemporanea e quasi sempre con un’impronta adeguata professionalmente, in cui si può soltanto intravvedere lo sforzo e la determinazione di chi attraverso questi sistemi di comunicazione vuole dimostrare e dare maggiore visibilità alle forme varie del contemporaneo. La difficoltà è semmai nelle spiegazioni da dare a chi vede nel complesso fenomeno dell’arte qualcosa di incomprensibile.

Le molte occasioni di eventi internazionali, adesso proliferanti un po’ ovunque, riescono a raggiungere la pagina della rivista non specialistica, l’informazione televisiva. Ciò che solo qualche anno fa riusciva impossibile è adesso cronaca quotidiana. Ampi servizi ci raccontano di eventi anche lontani, la nascita di nuovi settori di ricerca. L’informazione non manca, ed è anche ben confezionata. Eppure l’ampia schiera di critici e curatori attualmente al lavoro deve accettare un dato di fatto: chiunque può accedere all’informazione ed alla cura riassuntiva dei fatti contemporanei ma nessuno può in alcun modo produrre qualcosa che vada al di là di quanto sia prodotto all’interno del sistema di mercato. Si dirà che questo è un bene, e naturalmente con un occhio allenato alla realtà si potrebbe affermare che è la giusta legge del libero mercato e così tutto rimane al suo posto. Questo è il miglior sistema possibile e non ci sono alternative. Tuttavia il discorso implica alcune problematiche che soltanto un giudizio superficiale potrebbe disconoscere. Un libero mercato si regge sulla domanda e sull’offerta. A questi parametri vanno aggiunte alcune coordinate imprescindibili. La pubblicità, la veridicità e la tenuta dei lavori di un artista nel nostro caso: la qualità insomma da sola non basta, ci vuole anche chi se ne interessi. Le strategie del mercato globale impongono che l’arte sia veicolata attraverso la sua visibilità per così dire “didattica” attraverso l’informazione e la successiva risposta del mercato. Un artista che abbia grande visibilità dovrebbe crescere anche nel mercato, con tutte le conseguenze che questo comporta. Rialzo dei prezzi, creazione di un contesto preciso, riferimenti al valore storico critico, surplus culturale. Eppure non è mai un caso che gli artisti di cui si parla siano già all’interno di questo mercato. In un certo senso è proprio l’essere dentro al mercato che fa di un individuo un artista. Soprattutto nel caso di processi creativi non altrimenti verificabili il mercato diventa la prova, la cartina al tornasole della qualità stessa dell’opera. A questo punto allora appare chiaro che tutto ciò di cui abbiamo detto prima è solamente elusivo, qualcosa di ideale di cui vorremmo poter discettare, quali valori culturali, qualità e altro dell’arte, ma poi in sostanza quello che viene riconosciuto come valore è soltanto ciò che si vende. Anche se noi volessimo fare un’azione di totale estraniazione da questo contesto “libertario”, la constatazione di un’impossibile riduzione o elevazione a qualità monetaria di un’opera artistica la pone al di fuori del sistema di verifica culturale nel contemporaneo. Chi non capisce nulle dell’arte capirà certamente quanto costa un’opera e potrà anche dannarsi l’anima col dire che non vale niente, ma il fatto rimane. Quell’opera vale i soldi che l’hanno pagata, è la sua conferma di qualità.

Ritorniamo al discorso della critica e della cura critica. Abbiamo detto che la qualità e la professionalità di questi attori del sistema è cresciuta molto. Ci sono molti più autori nel campo della cura e della critica ma nessuno di questi ha la forza di realizzare un progetto che possa determinare scelte e averne conferma del mercato. D’altra parte anche i grandi curatori di qualche decennio addietro hanno di molto ridotto le loro identità per poter avviare un percorso di conferma nel mercato. Celant ha dovuto bloccare la storia dell’arte per conferire alla sua visione dell’Arte Povera una dimensione economica: Achille Bonito Oliva, che pure aveva curato mostre di grande livello come Contemporanea, solo attraverso la Transavanguardia è riuscito a produrre questo feed-back fra proposta e realizzazione economica nel mercato. E probabilmente se non avesse fatto queste scelte oggi pochi ricorderebbero quanto aveva inciso prima. Adesso che il sistema è enormemente parcellizzato, il critico ed il curatore che voglia vivere nel libero mercato non può che operare sulle scelte già date da questo. La sua professonalità è tale da poter ovviare all’evidente resa del processo di verifica storico critico con la misura delle sue parole e delle sue ideazioni, ma sempre all’interno di scelte già comprovate e misurate dal mercato. L’obsolescenza di determinate scelte critiche compiute da grandi storici del passato recente, come Argan, dimostrano che sulla qualità critica dell’opera possiamo sempre discettare ma sul suo valore storico, se di storia del presente, dobbiamo chiedere ai parametri economici, quindi al beneficiario di ciò: il mercante d’arte. Cosa ne pensa? E allora chi sceglie? Il critico o il mercante? Chi fa la storia? Certo è triste e davvero riassuntivo porla in questi termini ma la realtà è questa. Possiamo realizzare tutte le mostre che vogliamo ma se non ci si mette dentro l’energia del mercato facciamo soltanto documentazione e non assumiamo alcun peso politico, nel senso pratico del termine. La critica contemporanea, la divulgazione da rivista, la cura, sono tutti percorsi individuali che lo storico critico può compiere ma se vuole essere riconosciuto politicamente come tale allora deve interessarsi di ciò che si vende e se si interessa solo di questo in cosa consiste la sua visione critica? Di una scelta fra le varie già offerte dal mercato? D’altra parte della sua visione critica non possiamo farne un sistema di mercato e allora è logico che le istituzioni, i musei, le grandi rassegne vedano e peschino soltanto all’interno della realtà “qualitativa” decretata dal mercato con la consapevolezza che all’interno del cerchio si sopravvive mentre della visione critica possiamo anche provarne fastidio. E d’altra parte quale mercante vorrebbe lasciare che le sue scelte siano nelle mani dello storico critico? Chi vorrebbe convalidare una storia di cui non sia artefice? Lavorando con la cura critica si avrà la percezione di questo distacco fra visione delle scelte e necessità delle risposte: la professionalità si costruisce nella qualità dello scritto e dell’allestimento, dove non c’è coinvolgimento che non sia semplice misura di un profitto anche soltanto evocato. Se non fosse così non avremmo percezione di questo ampio girone circostante, numero e pubblico del sistema che avvolge e gratifica, in cui artisti e critici hanno sterminate modalità di attuazione dei propri propositi ma nella realtà nessuna conferma di qualità in termini concreti nel sistema di mercato. Quando ci accorgiamo d’una debolezza del settore contemporaneo, in particolare italiano per la sua assenza, paragonandolo successivamente col gigantismo museale presente nel sistema di mercato, non possiamo recriminare fra istituzioni mancanti e realismo delle scelte. Si tratta di un’ovvia conseguenza delle scelte (decisioni) di chi gestisce politicamente e ha oggi deciso per l’apparenza piuttosto che per l’esperienza. Si tratta, infine, del collasso attitudinale di tenere separati mercato e ricerca, profitto e prodotto e senza alcun diaologo tra le parti. Creando così istituzioni vuote d’appartenenza e specchio riflesso per le scelte abitate altrove e per la ridondanza di mercati del tutto sconosciuti e per noi estranei.

http://www.iiccolonia.esteri.it/IIC_Colonia/webform/SchedaEvento.aspx?id=225&citta=Colonia

 

Luciana Picchiello da Altilia a Colonia: il viaggio degli archetypi invisibili
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Dalla matematica della complessità alla semplificazione visiva dell’arte: questa è la sintesi espressiva che Luciana Picchiello rimette alla qualità oservativa del mondo. Il piano astratto diventa spazio percettivo materno a sostegno delle geometrie intuitive contemporanee; frattalismi e natura sensibile captate in magica maniera dalla riceca tenace e leggera dell’artista si riordinano con criterio metodologico nel linguaggio e nello stile autonomo. Un racconto artistico, dunque, come scrittura enciclopedica del fantastico e del geometrico cromatico, organizzato per codici visivi lungo “le pareti testuali” dell’Istituto Italiano di Cultura. (antonio picariello)

Informazioni
Data: giovedì 8 novembre 2007 – giovedì 3 gennaio 2008
Orari: lu – ve 9-13 e 14-17
Luogo: Istituto Italiano di Cultura Colonia
Organizzato da: Istituto Italiano di Cultura Colonia

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