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sembrano tante nuvole allinsegna delpesce doro.pdfPilo'

Pilo’, COMUNQUE PRIMA C’ERA, -Creoli, Grizzana Morandi – (narrativa)

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http://cavallisanniti.splinder.com/post/14040044#comment

 

 

 

http://www.girodivite.it/Comunque-prima-c-era-un-libro-di.html

http://ceciliafalasca.blogspot.com/2008/01/blog-post.html

http://libriedintorni.splinder.com/post/14169990/Comunque+prima+c%27era%2C+un+libro

http://www.moliclick.it/new07v2.asp?id=895

http://www.molisenews.net/2008/01/13/presentato-a-pescara-l-ultimo-libro-di-picariello/

 

creoli

Saint Denis, ile de la Reunion, inizio 1993

Amore è il nome dello schiavo reunionese che fecondò le belle piante della vaniglia.

Ci sono luoghi dove il linguaggio sublime parla silenzioso al destino delle persone.

 

Saint Denis, ile de la Rèunion,fine 1993

E’ tutta concentrazione dice l’indiano tamoule mentre distende le sue lunghe gambe sottili dalla poltrona al centro del pavimento. Parla con una flemma che rilassa e le parole che perdo, ritornano come una eco e riesco a seguirlo nonostante non capisca un gran che del suo francese. Anche le sue braccia sono lunghe, e vederlo lì, tormentato dalla ristrettezza del sedile, mi fa pensare ad un enorme pipistrello che ha tolto le ali per infilare una camicia a mezze maniche, un pantalone occidentale e dei calzini corti da dove spunta la sua pelle bruna. E’ in funzione della luna, dice. Ci si prepara per un mese alla concentrazione, si prega tutto il giorno e quando la festa di Kalì comincia, quelli come me entrano nell’acqua marina alle quattro di mattina e fino alle nove si lasciano infilare aghi nella carne. C’è un ricercatore che ha scritto un libro ben fatto sull’argomento. Mi casca dalla bocca un nome. Dico Marvin Harris come per liberare la mia maleducazione europea. Il lungo uomo ritira le gambe verso i piedi della poltrona, le incrocia raddrizzando la schiena come per riproporre un monumento di fierezza che per spontanea confidenza aveva rilassato. Si scusa di non ricordare il nome dell’autore e dice che comunque si tratta di  uno studioso indù.

L’elica soffre nel tagliare questa massa di calura tropicale. Ad ogni giro del ventilatore le pale emettono uno stridio come di ferri vecchi che si toccano. Il vortice di vento arriva nella camicia che ho di fronte, quando il sollievo dell’aria mossa tocca me, le eliche  emettono un altro stridolo e di colpo ripartono verso l’indiano.

Si chiama harloy, dice l’indiano con un tono di voce più determinato e una postura più formale. Il taglio deve essere netto con un movimento delle braccia che disegnano la parabola del sole. La testa delle capra resta nelle mani di un fedele mentre il corpo cade dalla parte opposta. L’harloy si ricava dalle balestre dei camion, ha una lama di sessantasette centimetri e un manico di legno di tamarì.

Sono pronto per un altro attacco di maleducazione, un intervento del tipo: è riscontrato scientificamente che il cervello, dopo il taglio della testa, continua a funzionare per qualche secondo in modo da sapere che è stato staccato dal corpo… Il rumore del ventilatore sormonta il nostro silenzio. Quando scocca di nuovo, l’indiano riprende a parlare allungando le gambe verso me.

Durante la guerra i sacrifici erano umani, dice guardandomi negli occhi come per trovarci lo stupore o un’immagine di timore verso la sua razza. Lo dice anche Marvin Harris, gli rispondo senza distogliere lo sguardo. E mentre il tamoule ritira le sue lunghe gambe gli confermo che nella seconda metà del cinquecento i sacrifici umani erano una pratica un po’ dovunque tranne in Europa, dove l’inquisizione aveva sostituito la sacralità  del rito con la tortura. Cerco di parlargli della ruota dove venivano infilati gli arti massacrati delle vittime ancora vive, ma mi trattengo davanti allo sguardo calato del creolo.

La mia è una razza che fa paura davvero, anche se non sa camminare scalza sui tizzoni ardenti come la sua. Per questo me ne sono andato dall’Europa: da noi i nemici non si mangiano, si danno in pasto ai cani o si fanno marcire lentamente insieme alla loro dignità .

Saint Denis, ile de la Rèunion, inizio 1994

Sulla strada, a volte, si trovano buste di plastica con dentro una gallina morta con le zampe legate. Se si pilota una macchina è meglio evitare di passarci sopra. Quel punto bianco che si vede lungo la prospettiva di guida  è il ventre delle forze del male riempito dalle pene che lo sciamano ha estratto dal corpo degli ossessionati e ha gettato lungo la strada. Una gallina sgozzata è Il male che non può essere distrutto e va trasferito sugli stranieri. Passandoci sopra con le auto assorbiranno tutte le maledizioni che contiene. E’ il male che trasloca da un copro ad un altro attraverso le onde invisibili del luogo dove ha atterrato l’animale sacrificato.

 

Di giorno, dai finestrini veloci della linea principale, si intravede la freschezza della natura e il nome Grizzana Morandi che risuona sul cartello come l’annuncio della bellezza in omaggio al demiurgo di questo posto.

 

 

Tempo addietro avrei saputo fare in quel momento come fanno i seduttori. Guardarla dall’alto in basso, porgerle le mie pupille lucenti sopra la fronte per obbligarla a trasgredire il confine della sfida, l’alzata di sguardo, guardarmi e in quel momento di stupida sua fierezza trafiggerla con il sapore tutto della fermezza, della seduzione del richiamo atavico che frantuma le cristallizzazioni e scuote le femmine rimischiandole per natura e perversione all’accesso di desiderio che in un attimo riporta il padre nella memoria di figliola intimorita e pavida, carica di vertigini che oltrepassano le ordinarie sapienti leggi comunitarie per addolorarsi nel piacere della verginità   e farsi forte oltre il richiamo dell’incesto. In un attimo tutto il tenuto abilmente consueto di tutta la vita. Cade. Sotto l’aspetto della potenza autoritaria maschile si alza virile a rinvigorire la complicità  di trasgredire come in un dettato elementare che scorre nella carne e nel sangue .

 

[…]

L’uomo della golf rossa aveva un’aria familiare. Passava con me le mattine in silenzio nell’aria galleggiante e vuota del bar. La maggior parte dei giorni liberi trascorreva nei pensieri e qualche litro di vino che dal boccione rosso lasciava l’alone intorno al vetro trasparente dei bicchieri. Mi piaceva offrire, mi ricompensava la soddisfazione che appariva sulle facce dei miei invitati. Poche lire per vivere la rispettabilità   del mentore controbilanciavano l’usuale legge del mercato che richiede sempre il minimo investimento per il massimo profitto, e pochi bicchieri di vino ritualizzavano il sapore dell’attesa per qualcosa o per qualcuno inesistente. Era quello che Morandi aveva inchiodato con l’olio sulle tessiture delle tele. Un’attesa sublime che viaggia laterale alla morte di cui ne sente le essenze ma non la incrocia, le passa a fianco ogni mattina tra i filari dei pioppi di viale Roma e la luce di questa altura che non ha nulla di magico ma, possiede il tepore cardiaco di un sottomarino di vetro immerso tra le acque gelide del nord. Una sorta di vitalità  del purgatorio che tralascia la natura dell’animale e le faccende evolutive a quelli della pianura. Qui si resta intere mattine senza parlare. Si beve e si pensa e nessuno mai alza la voce o fa commenti sulle parole che si muovono a mezzobusto, come pesci rossi, dentro il cubo televisivo.