Febbraio 2010


pagina-pubblicitaria.jpgpagina-pubblicitaria.jpgpagina-pubblicitaria.jpgpagina-pubblicitaria.jpgpagina-pubblicitaria.jpgpagina-pubblicitaria.jpgpagina-pubblicitaria.jpgpescasrart12.jpg

Una piratesca incursione (critica)

 

di Antonio Gasbarrini *

 

La overdose di flussi e riflussi delle immagini più disparate ingoiate quotidianamente nella dominante, imperialistica società spettacolare preconizzata con oltre mezzo secolo d’anticipo da Guy Debord, impone, se non si vuole crepare di bulimia, una disintossicazione.

Frequentando, magari, con più assiduità i musei d’arte (antica, moderna e contemporanea) dove la benefica, auratica tirannia del reperto e dell’opera, riesce ad accorciare le inevitabili distanze separanti il transeunte dall’eterno, o meglio, la “verità relativa” dalla “menzogna assoluta” (mediatica, in particolare).

Già. L’opera d’arte “autentica” – e ben lo si percepisce in questa densa rassegna pescarese – porta e tra/sporta, ontologicamente, frammenti profumati d’una indomabile creatività prometeica ch’è all’un tempo sfida alla violenza perpetrata dagli dèi, e, rivolta verso ogni tipo di prevaricazione umanoide.

Di fronte (guardando) e non di scorcio (vedendo), si riconquisti, allora, lo scorrere lento di un proustiano tempo ritrovato. Indugiando (Gadamer) più del dovuto nei pressi ravvicinati di ogni opera. Guardandola fissa per sfidarla vis-a-vis. Svelandone così gli ambigui enigmi cifrati del suo ostinato silenzio, dei suoi cenni ed accenni, delle sue continue trasmutazioni ermeneutiche.

Le tele, le grafiche, le sculture qui copiosamente esposte attraversano, poeticamente e linguisticamente, i sussulti modernisti e avanguardisti di un fantasmagorico Novecento prolungato fino ai nostri giorni con la folta presenza di artisti contemporanei.

S’inventino, perciò, percorsi visivi personali empaticamente compatibili con la propria sensibilità. Andando avanti e indietro; scompaginando virtualmente l’ordinato, razionale allestimento espositivo; mischiando a piacimento le carte cronologiche, stilistiche e “movimentiste” rigidamente canonizzate da una storia dell’arte non sempre all’altezza d’una montante complessità scientifica e socio-culturale.

Si ritorni più di una volta su questo rinfrescante prato, complice testimone d’un amplesso fruitivo esponenzialmente moltiplicato: anche i vizi, talvolta, possono essere taumaturgici.    

 

* Alias “Il Naufrago”  (critico d’arte aquilano terremotato in esilio sulla costa teramana)

Pescart III. Il  linguaggio ritrovato

Antonio PICARIELLO

 

“Mi interessano le zone d’ombra. Quando mi convinco di aver capito qualcosa a grandi linee, il che è il massimo che si possa fare, allora mi piace spostarmi verso altre aree d’oscurità.” Gerald Edelman

Esistono ancora artisti che a sentirli nella visione mettono in allarme il sistema nervoso e quella magnifica fibrillazione che ci portiamo dentro dalle più belle esperienze dell’infanzia; artisti capaci di scatenare  il fremito. Certo il sistema delle arti, il modello mercantile, la morte totale e tormentata della critica, la superbia di alcuni artisti che poco conoscono la forza dell’arte e non sapendola sedurre lamentano colpe accusando il pensiero critico che non gli porta merito. Certo non è facile mancare della protezione degli angeli, non è conveniente restare in silenzio in un contesto sociale dove l’arte ripara nelle maglie inconsistenti di un post-modernismo vacuo addetto più  alla dirompenza pubblicitaria che allo scuotimento della scienza e dell’estetica. Artisti che hanno formulato poco per il funzionalismo degli ingranaggi  che muovono le idee e le condivisioni  collettive restando comunque  protetti dalla convenienza del mercato. Certo non è facile per gli artisti mancanti di spiritualità e di passione, incapaci di far risuonare fremiti e pulsazioni emotive, consolidarsi nel convincimento della propria ricerca. Ma anche il senso perduto dell’estetica e dell’epistemologia richiede un minimo, da parte di tutti, di amorevole attenzione. Morte della critica? Ma come potrebbe morire la parola che mette in vita la morte. Semplice mancanza di forza invece da parte di chi dovrebbe essere addetto alla costruzione di mondi inesistenti da rimettere alla realtà. D’altra parte solo se si ha coraggio navigato nella ricerca si può  superare l’apparenza  convenevole di ogni memoria storica per  investigare con sincera verità impegnata l’ombra dell’armonia contestuale  sottesa  alle  idee che hanno strutturato la significazione dei movimenti e delle avanguardie canonizzate alla consegna sociale delle convenzioni e dei  codici conquistati con destinale audacia fino a farne un linguaggio distribuibile al succedersi generazionale. Questo processo  raggiunge la contemporaneità con l’autocelebrazione che ripete se stessa fino allo sfinimento, ritrovandosi nel privilegio di luoghi del mercato e delle fiere d’arte che ormai assolvono funzioni episcopali  a riferimento del vuoto e della mancanza estetico/teologica in cui l’arte contemporanea trova l’illusione della dote secca del “materialismo rituale”.  Ripetizioni delle  funzioni distinte  della creatività artistica  nella progressione delle forme espandibili  oltre ogni misura referendaria fino a creare una  “semiosi illimitata” che trova la sua proiezione  finale  nella paura di essere abbandonata dalle attenzioni del mercato globale divenuto una sorta di teatro del Nō (能) giapponese. La maschera  interpreta la voce sacra dell’imperatore inesistente  che  presume una cultura alta per essere compreso visto che i testi hanno proprietà labirintiche della significazione  da poter essere interpretati liberamente dallo spettatore.  A guisa di questa sceneggiata illusione l’arte mercantile contemporanea si presenta sotto la voce postmodernista con capacità raffinate di illudere l’ interpretazione collettiva inventata per rianimare, negli anni ottanta, un mecenatismo mercantile che stava  affogando nelle correnti sociali votato al funzionalismo pratico. Certo non è facile per gli artisti privarsi  di quella funzione spirituale e poetica, quei tracciati  onorevoli  delle scienze che definiamo “poietica” capace di sapere rimettere in vita l’irreversibile e che si contrappone alla vaghezza ingannevole del postmodernismo. Non è facile per l’inconscio artistico patteggiare con il sociale rinunciando alle vigorose potenze primitive  dell’ “ES” freudiano o alle profondità universali degli archetipi junghiani abitate dal “fuoco centrale”.  Sono i luoghi degli elementi primari  che ogni atto artistico avrebbe  comunque l’obbligo di rispettare per farsi riconoscere nella verità della ricerca e nella forza emanata dalla “costruzione” delle opere.  È il coraggio e la forza cromatica e abbagliante di Umberto MASTROIANNI capace di investigare ogni stimolo linguistico, di attraversare fenomenologie pericolose fino a dare corpo ad una visione che rimette nell’iride dell’umanità il senso atavico del ventre e la dirompenza infuocata del mondo mantenendo leggerezza e galleggiamento oltre le paure della morte  e il magnetismo dell’amore.  Ecco un  senso messo in campo da questa manifestazione che unisce coraggio storico dell’arte e successione contemporanea addetta al rilancio della ricerca artistica nella fermentazione di  potenziali linguaggi di cui possiamo nutrirci. E’ il significante, latore di un significato nascosto che attraverso l’organizzazione di Giancarlo Costanzo   riemerge sotto forma di stimolo comparativo con l’intento progettuale di poter mutare qualche aspetto della realtà che il terzo millennio sembra aver assunto nel presenzialismo generativo della staticità perenne.  La critica, nella sua funzione di giudizio di valore, per quanto possa sembrare dormiente,  è potente adesso come non mai. Sono i critici e gli artisti, quelli  seri,  quelli che hanno incamerato dai buoni maestri il senso concreto della verità del mondo che si danno la voce nel ricontrarsi  prima della battaglia a favore di una rimessa in gioco della qualità che l’arte e la poetica devono necessariamente contenere nella corposità naturale dell’espressione e del linguaggio per poter adire alla qualifica di identità generativa di nuovi mondi possibili. E non a caso il giovane allievo di dio dal nome simpatico e dall’età rigogliosa di oltre confino biologico, Gillo Dorfles, la dice ancora giusta con “Fatti e Fattoidi, gli pseudo eventi nell’arte e nella società” riguardo al senso veritiero nella proliferazione esplosiva  degli eventi: “[…]Bisogna inoltre aggiungere che oggigiorno l’opera d’arte spesso include e fa proprio quello che arte non è”. Ed ecco ancora il senso magico di questa presentazione che vuole Dorfles presente nella testimonianza attiva di un George Grosz, artista storico di questa manifestazione (di cui mi piacerebbe parlare con impegno e tempo) nel catalogo di -rosa e ballo editori – del 1946 e  della presentazione dell’artista emblematico Tomaso BINGA in “Valore vaginale” (Ed. Tracce) compagna di uno dei fondatori sostanziali del senso esistenziale delle arti e dell’arte contemporanea, riprendendo un po’ quell’atmosfera inquieta del maschile femminile espresso dal cuore palpitante del già citato teatro del Nō orientale riunendo così la significazione delle diversità in un unico motivo narrativo che rianima la vigoria stanca del nostro Occidente disperso nella storia. D’altra parte  Tomàs Maldonado, mio amato professore che finalmente la dice tutta con “Arte e artefatti ( da quanto tempo l’aspettavo, oltre trent’anni) nell’intervista documento di Hans Ulrich Obrist aggiusta e giustifica  la definizione di Lea Vergine che ha coraggio di  dire “l’artista è un errore sociale”. È chiaro non sono d’accordo con Lea Vergine, se non in parte, intendendo la sintesi dell’enunciato come una volontaria sfida ad un contesto storico del post modernismo che ha inventato il valore del nulla e dato grazia ad alcuni malinconici saturnali di poter sostenere  senza preoccupazione i circuiti dell’arte imposti dal mercato.  D’altra parte la scienza, e la scienza estetica sortita dalla Gestald, passata tra il Bauhaus e ULM, lavorata poeticamente dal grande Rudolf Arnheim ( guarda caso nel suo testo riedito dalla Feltrinelli governa la presentazione di Gillo Dorfles) per comodità espressiva distingue i tre livelli di realtà consentiti dal Macrocosmo, il Mesocosmo e il Microcosmo. “Il mesocosmo costituisce quel livello di realtà in cui si svolge la nostra vita quotidiana e con cui noi stabiliamo un rapporto percettivo immediato”. Con gli altri stadi,  invece, il nostro rapporto si esperisce tramite strumenti e tecnica, telescopi e microscopi che allargano il nostro universo percettivo e cognitivo per permetterci l’esplorazione fantastica e funzionale di “nuovi paesaggi”; nuove immagini inaccessibili ad occhio nudo. Credo qualunque luogo mentale e percettivo che attraversa la coscienza e il mito dell’inconscio,  sia per obbligo universale  portatore di nuove spiritualità che di solito nella padronanza sensibile e prodromica dell’artista viene preannunciata attraverso il linguaggio sentito dell’opera. E se come dice Galimberti “che nelle condizioni attuali l’uomo non è più al centro dell’universo come intendeva l’età umanistica: tutti i concetti chiave della filosofia (individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, natura, etica, politica, religione, storia) dovranno essere riconsiderati in funzione della società tecnologica attuale”, allora si comprende immediatamente il mutuo soccorso che i fantasmi storici costituenti il nostro attuale mondo visivo e cognitivo, ci offrono per dare corpo e continuità all’arte del Novecento cui apparteniamo per anagrafico dovere esistenziale. Sono per noi, questi storici fantasmi dell’arte,  elementi angelici che ci danno consistenza e forza nel riordinare il nostro stesso senso esistenziale, continuità di senso, e considerarci tanto vicino agli dei quanto alla condizione atavica  del mondo magico animale cui apparteniamo per biologica catalogazione di genere e per volontà della natura.  Ecco allora che il pronunciamento del nome di ogni fantasma qui presente è capace ad allenarci a capire mondi paralleli lavorati e intuiti nelle loro opere di viventi. Il solo pronunciamento del nome  scatena intere conclusioni ideali che ognuno di questi esseri, per dote acquisita e innata, ha saputo potentemente strutturare per noi. Non credo sia necessario parlarne per soggettività visto i loro nomi sono la storia dell’arte  del Novecento mondiale; basta il pensiero evocato dal nome per innescare  la ramificazione delle sinapsi e  trovare il codice preciso adatto ad aprire altri spazi mentali che oltrepassano il mesocosmo e il microcosmo bisognosi per esistere delle protesi della tecnologia e riunire l’intero universo nello sguardo e nell’incanto dello spettatore. Basta il nome per rimette in vigore il desiderio del fremito e rilanciarci verso i contemporanei che di questa filiera fantasmagorica dell’arte vera ereditano tutta la potenza e il tracciato da sviluppare nel divenire delle idee che  costituiscono la struttura energetica e vitale del pianeta. MARCELLO AVENALI,  JOSEPH BEUYS, FRANZ BORGHESE, ALDO BORGONZONI, REMO BRINDISI, ENZO BRUNORI, DOMENICO CANTATORE, CARLO  CARRA’,  ANTONIO CORPORA,  ELIO DI BLASIO,  GIUSEPPE DI PRINZIO, PIERO DORAZIO, LUIGI FACCIOLI, TANO FESTA, SALVATORE FIUME, LUCIO FONTANA, BEPPE  GUZZI, GEORGE GROSZ ,UMBERTO MASTROIANNI, MARIO MERTZ, GIUSEPPE MIGNECO, LUIGI MONTANARINI, GIOVANNI PITTONI, CESARE PUCCINELLI, MAN RAY, BRUNO SAETTI, MARIO  SCHIFANO, MARIO SIRONI, GIOVANNI STRADONE, ANDY  WARHOL.  Da qui la linea sicura che conduce al senso compiuto degli eventi messi in atto a favore della ricerca imperativa dei  nuovi linguaggi da maneggiare con cura e assorbire con fede presa attraverso l’intinto percettivo della forza dell’artista emanata dall’opera. -Il punto cruciale sta nel fatto che tutto ciò che finora ci ha guidato nella storia (sensazioni, percezioni, sentimenti) risulta inadeguato nel nuovo scenario contemporaneo che si avvale di vicinanze virtuali e tempistiche immediate fulminanti l’antica dimensione percettiva in dote alle società industriali europee del primo Novecento. Società strutturate nella riflessione delle “promenade” contrapposte alle comunicazioni di adesso di cui le nuove e nuovissime generazioni danno pregnanza con la consistenza naturale dello scambio virtuale e immaginativo privo di percezioni tattili e olfattive. “ Come -analfabeti emotivi- assistiamo all’irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità dell’organizzazione tecnica, priva ormai di qualunque senso riconoscibile. Non abbiamo i mezzi intellettuali per comprendere la nostra posizione nel cosmo, per questo motivo ci adattiamo sempre di più all’apparato e ci adagiamo sulle comodità che la tecnica ci offre. Ciò di cui necessitiamo è un ampliamento psichico capace di compensare la nostra attuale inadeguatezza
riferita non  solo al nostro modo di pensare. Ed è questa maniera confermata e riconosciuta dell’arte messa in campo e storicizzata dalla ricerca cromatica di VITTORIO AMADIO e sintetizzata dal segno scultoreo e spaziale  di MARIO COSTANTINI, nel neoplastico spettacolare trasportato dalle tessiture materiche della tela ai pixel virtuali e caricaturali televisivi  di DARIO BALLANTINI,  per aprire il varco verso il segno figurativo baconiano riversato agli oggetti quotidiani di LUCA BELLANDI. Il  verso dell’alchimia primitiva e sperimentale impregnata di semantiche nelle antiche scritture visionata da  TONI BELLUCCI richiama  le armonie fantastiche neoboschiane di SILVANO BRAIDO contrapposte all’equilibrio sintattico di un concettualismo fluido e discorsivo  ricercato da GIANCARLO COSTANZO, cui il 
puntinismo narrativo ed  etereo di  GAETANO CARBONI compensa la percezione globale del racconto nei visitatori/lettori della mostra. Accora più accentuata la narrativa simbolica e orientaleggiante espressa dalla spiritualistica poetica di MARIO SERRA  e la risonanza visiva tratteggiata da un segno liberato e liberatorio dato dalla ricerca spaziale di un mondo dell’infanzia propulsore di formule scientifiche messo a disposizione da STEFANO CIAPONI lancia il sottile captare  di LORENZO D’ANGIOLO lievito di particolari folgorati dalla luce della lontananza, ma sentiti come microcosmo da visitare con il respiro della calma e della quiete. Da qui alla saggezza scultorea resa pura spiritualità della visione nella ricerca del comportamento materico concentrata e decisa di  DUCCIO GAMMELLI alla comunicazione opticale  richiamata dal nuovo astrattismo nella voce pittorica di FERRUCCIO GARD che ritrova il dinamismo interiore nella momentanea fermezza del segno cromatico e percettivo quasi a rinvigorire nello spazio del Museo Colonna  la ricerca  vicino al mondo del MADI’ nel costruttivismo stimolante tra spazio e luce dato da FRANCO GIULI  provocatore di dimensioni spaziali per estrarre dall’ istinto geometrico la visione globale della tetricità spaziale. Da qui alla comunicazione ambientale di  STEFANO IANNI, che sprigiona nel timbro la ripetizione visiva immortalata nel simbolo del tatuaggio per imprimere alla pelle urbana la memoria offerta alla distrazione della comunità urbana. Diverso invece l’attraversamento delle varie espressioni scultore di  PAOLO MARAZZI che dall’arte  sacra ai  bronzi ai cartoni colorati  alle ceramiche ai  cristalli divenuti gioielli, marmi,  monumenti e  tarsie nobilita la ricerca del fare con il movimento certosino delle forme. Da qui ai “sogni materici” approfonditi nella visone delicata genuina quasi a riconfermare la leggerezza delle avanguardie nel segno cromatico di GABY MINEDI  ad arrivare alle immagini evocatrici di una funzione della città nascosta che si rileva nello scatto sentito di MARCELLO SCOPELLITI per arrivare alla ricerca informale di FAUSTO MINESTRINI dirompente nell’ esaltazione degli oggetti sfuggenti la definizione percettiva,  ma precisi nell’affermazione di una presenza che si avverte nella staticità degli elementi. SIMONE ZACCAGNINI lavora con l’ironia, smuove il segno come segnaletica di percorsi progettati da non distrarre dalla programmazione come la quotidianità urbana impone nelle misure comportamentali dei doveri e delle scadenze. MAURO  REA rivendica l’attimo dinamico in ogni posizione dello sguardo, le stratificazioni materiche equivalgono alle sovrapposizioni dello sguardo per impedire alle percezioni di stanziare nella riflessione accomodante priva dell’azione con cui il pensiero ha obbligo di patteggiare. CIRO PALLADINO assume il senso dell’alternanza tra spazio e tempo a modello di un percorso visivo impregnato di osservazione sintetica quasi a voler calibrare percorsi urbani e segni lasciati dalla comunicazione pubblica per una letteratura incorporata nel passaggio di un attimo. Da qui ai  monolitici inseriti nelle cellule dello spazio non geometrico se non di una geografia riorganizzata dal viaggio fantastico di  MASSIMO POMPEO  che assume il racconto trasformandolo da scrittura in visione narrativa come a far meglio comprendere la forza dello spirito che alberga nelle zone dell’universo rimette alle opere cattura memoria  di  FRANCO SINISI che modula il piano con sfumature cromatiche a contrastare la dirompenza spaziale dell’agorà attraversata dal pensiero tenue della riflessione invita all’arte ambientale di ROB REGEER,ai plastici  scenografici di labirinti composti dalla microarchitettura di NICOLAS DINGS che apre la comparazione sentita con l’emanazione dell’oggetto pensato con propria vita e natura da CARLO OBERTI  a rivendicare la proprietà scontata   di un ready-made duchampiano con l’aggiunta spirituale  emessa dalle opere silenziose di Giorgio Morandi  per poter  sentire la materia organizzata nello spazio.  Da qui al ritorno rinascimentale respirato dalla “Maddalena” di CESARE GIULIANI in cui la semantica racconta lo sguardo della femminilità graziata, la gestualità del corpo e la comunicazione delle mani come ad oltrepassare il classicismo attraverso i suoi stessi codici per approdare ad un contemporaneo che comunque ha rispettosa considerazione del pensiero che gli dona entità e consistenza, e da qui alla  visione spaziale, teatrale e coinvolgente delle opere ritualistiche di ERIK MATTIJSSEN.  Qui si conclude il percosso narrativo dell’arte vista al maschile per aprirsi nella comparazione di genere dato dalla profondità extrasensoriale evocata dalle opere al femminile. Sarebbe opportuno traslare attraverso la duplice funzione  simbolica mediata dalla citata TOMASO BINGA, ma per intenzione voluta lascio aperta ogni interpretazione per  dare senso spirituale e profondo e, soprattutto  di rispetto, a quanto le artiste, da me in parte già presentate in altre occasioni,  hanno coraggio di ritrovare oltre la “sensorialità” umana e rimetterci  elegantemente nelle iridi oltre il sangue e l’anima. Sono convinto che di fronte alla potenza di genere qualunque tracciato interpretativo della parola mancherebbe di forza dovuta. Con affetto dichiarato dunque a  MANDRA CERRONE,  ISABELLA CIAFFI, MIRELLA BENTIVOGLIO, LILIAN RITA CALLEGARI, ALBA GONZALES,  MANUELA MAZZINI,  ANNA SECCIA,  ANNA UNCINI, ISABELLE DEHAIS, MASSIMINA PESCE e  ZUZANA RUDAVSKA  affinché  il fremito ricevuto  senza illusione passeggi nella continuità della performance ad attivare la vita palpitante nel linguaggio magico ritrovato.

 

Umberto Mastroianni: la dialettica dell’avanguardia

 

 

 

Nella produzione di Umberto Mastroianni possono essere distinti parecchi percorsi secondo il giro dei raccordi linguistici: il lavoro plastico e monumentale, non irreggimentati in linee predisposte, confinano così con la grafica e la pittura, con la scenografia e l’oreficeria. Si ha innegabilmente un diramatissimo reticolo di esperienze e di acquisizioni. Ma tra una sponda e l’altra l’interscambio è costante, tanto che si deve supporre sia unico l’organizzatore forte del quadro espressivo: identico lo stile costitutivo; in sostanza coerenti le nozioni base del discorso, che in qualche modo fanno blocco. Il moto perpetuo testuale non è insomma scorciato da una mano opposta. È un fatto straordinario, se solo si considera l’enorme riserva di passione e creatività messe in atto dallo scultore di Fontana Liri, con la mole conseguente di materiali prodotti. Molto più, tuttavia, quando si giunge a verificare un piano semantico sempre tracciato con una dovizia di diversioni e, soprattutto, sempre avvicinato al gancio del confronto con l’avanguardia.

Mastroianni ha avvertito intensamente il ritmo del proprio tempo; e con pari intensità l’ha sentito cadere. La sua fantasia ha dilagato nella dimensione verticale del profondo, immettendosi nelle cose. L’intensità è stata ricercata nella coltre di buio della materia, voltata al confronto con lo spazio e la storia. La caratterizzazione linguistica dei suoi testi ha espresso sin dall’inizio un preciso modo di definire la forma. Da cui un lessico tuttavia proporzionato a un continuo arricchimento delle relazioni sintattiche dell’espressione. Sopra il limitare della soglia di conoscenza, natura e cultura sono presto entrate in confronto. La levigata tenuità ornamentale delle prime opere ha incontrato la storia, in primo luogo quella dell’arte. È stato un universo rivelato a se stesso e poi verificato attraverso il lavoro degli altri.

In tempi di irrelatività o di riporto tangenziale di comodo, Mastroianni è stato un raro esempio di artista sempre disposto a riporre in discussione il proprio sistema linguistico. Questo legame, questa congiunzione vengono fatti essenzialmente con le avanguardie storiche. Ad esse Mastroianni si è rapportato sempre in forma di specchiata dialetticità. Non s’è spogliato dei suoi dati essenziali (quello di natura) e neppure ha introdotto, nel colare della sua «durata», materiali di contrabbando, cosi, tanto per corroborarsi e fingere. Ma non s’è neppure tenuto a freno subendo le espansioni sovversive e demolitrici, finanche nichilistiche, delle avanguardie stesse. L’unità che l’ha stretto volta a volta con le diverse esperienze s’è saldata in un potenziamento reciproco. La confidenza con nuove forme ha provocato nella sua opera insperate fusioni di intelligenza creativa. Ma gli esiti diversi ai quali è approdato hanno mostrato una diversa e non meccanizzata démarche di stilemi, con tanto di incrementi poetici.

Certo, non è revocabile in dubbio che in Mastroianni agisca una forte tendenza anticonservatrice. Quel tanto che in lui è venuto riaffiorando attraverso i depositi di memorie avvicinatigli dal passato, ciò che ha accumulato nel raffronto coi maestri, quel tanto finalmente che è rimasto in lui di ancestrale, profondo o archetipico, sono stati il reciproco di una eccezionale unificazione linguistica dovuta alla storia e all’arte contemporanea. Nell’ordine nuovo della cultura figurativa europea del secondo dopoguerra, Mastroianni è però un irregolare. Può concomitare alle innovazioni e concorrere con esse, ma al medesimo tempo salvaguarda i diritti della tradizione. In lui il veemente incalzare delle mere unità ritmiche e stilistiche si articola nella classica misura di un respiro che non s’accontenta del contingente; e che tenta, con il nuovo, ogni volta la scalata al cielo. Per ciò stesso, in lui l’ispirazione si alimenta alla fiamma dell’esistenza concreta, ma al contempo supera il dettaglio minuto e ogni ordine accessorio, per alto che sia, alla ricerca dell’intonazione più avanzata. Allo stesso modo, tutte le volte i risultati raggiunti sono messi in discussione e trascesi. Detto pulitamente, è ciò che in Mastroianni potremo definire dialettica dell’avanguardia: destino intessuto di tempo che sa inseguire la totalità trascrivendo all’interno del proprio spazio vitale l’universo di discorso della propria epoca.

 

Floriano De Santi

L’arte contemporanea è la cartina di tornasole della nostra società. Ne misura gli umori e contiene in sé molti possibili sviluppi futuri. Ecco perché un evento come Pescarart 2010 riveste un’importanza di primo piano per la nostra città. Una città moderna che disegna la sua identità anche attraverso le sue espressioni artistiche.

 

L’Omaggio a un Maestro come Umberto Mastroianni, continuamente proteso nello sforzo di superare il classicismo e rinnovarlo attraverso la sperimentazione, esprime la cifra esatta dello spirito con cui la mostra è stata ideata. Ripercorrere la produzione storica di artisti come Marcello Avenali, Lucio Fontana, Man Ray, Mario Schifano e Andy Warhol, è il modo più corretto per introdurre tematiche relative all’arte più strettamente contemporanea, quella cioè dei quaranta artisti che sono protagonisti della terza sezione della mostra.

 

Pescarart 2010 propone un confronto costruttivo fra i linguaggi che hanno rivoluzionato e continuano a rivoluzionare il mondo dell’arte. Il raggruppamento in un unico evento di Maestri storici e contemporanei, unitamente all’iniziativa di solidarietà “Aiutiamoli a vivere” che accompagna la mostra, fa di Pescarart 2010 un momento simbolo per la città di Pescara, in cui si coniugano fermenti sociali e culturali di altissimo profilo. Attraverso iniziative di questo genere si attivano dinamiche di confronto, dibattito e partecipazione, indispensabili in un contesto di crescita civile e di maturità culturale. Nello stesso tempo, Pescarart può candidarsi a buon diritto a diventare un punto di riferimento per l’arte contemporanea non solo abruzzese, segnando un passaggio di portata storica nel settore della ricerca artistica contemporanea.

 

Nazario Pagano

 

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l mondo gira al contrario

Con la lanterna in mano vagabondo tra le anime alla ricerca di spiriti liberi e di menti libere per  affidare le mie emozioni, i miei pensieri ma …la notte dell’anima ha preso il sopravvento , un vento gelido ha spento la pur tenue fiamma della lanterna.

Tutti dimostrano i loro argomenti, le loro verità, tutti maestri di vita senza cammino!

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Quando chiedo quale cammino, quale rotta, sovente la risposta  è: vado al cinema, a teatro, ascolto musica, vedo mostre..mi evolvo… chiedo… il tuo cammino che m’interessa   non è quello che la società balorda ti propina, la conoscenza degli altri non è la tua è come scrivere o leggere un libro, la differenza è enorme. Ognuno ha l’obbligo di scrivere la propria esistenza attraverso qualsiasi forma.

Ripeto la vita attraverso la forma e non viceversa, non so che farmene di forme sterili senza traccia dell’anima non mi aiuta. E’ luna nera è torre di Babele.

Ho sempre più necessità di seguire la strada della raffinatezza, della consapevolezza , cerco sempre di trovarmi nella stessa tonalità  emozionale della finezza totale.

Mario Serra

 questo è un artista che può permettersi tutto. una volta trovata la spiritualità dell’arte la mano esegue  ciò che la mente “sente” dalla voce della verità. con opere di questo genere, come le antiche icone, si può stare tranquilli. antonio picariello

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Dall’esilio nella costa teramana dove ancora dimoro dopo il catastrofico sisma, inseguo i nervosi volteggi dei gabbiani, cromaticamente fusi con i grigi ed  bianchi delle sfrangiate onde.

L’empatico contatto esistenziale è bruscamente interrotto dalla sovrapposizione visiva di uno dei più drammatici quadri  di Van Gogh, Il campo di grano con corvi dipinto nel 1890 alcuni giorni prima del tragico suicidio, con i suoi lividi colori-presagio di una morte annunciata: dove erano andati a finire gli abbacinanti gialli dei girasoli?. Il capolavoro vangoghiano diventa subito, nell’inconscio, una lancinante metafora imbevuta della stessa luttuosa atmosfera che continua ad avvolgere la mia distrutta città disabitata.

Solo le leggere nevicate di questi giorni hanno steso un purificatore velo sulle montagne e montagne delle inamovibili macerie, implacabili, scomode testimoni dello sfracello urbanistico pervicacemente occultato ai suoi ex abitanti ed al mondo intero, con le manipolazioni mediatiche ben pilotate dal sig. b., da me ampiamente denunciate in precedenti articoli.

I brevissimi tratti del centro storico praticabili danno una falsificante quanto rassicurante idea, sia dei più che insufficienti lavori di puntellamento sulle provatissime facciate delle irriconoscibili  chiese, palazzi, case e monumenti, sia delle reali dimensioni dell’immane disastro.

Basta aggirare i varchi militarizzati della zona rossa, andare nella centralissima Piazza Sallustio, o in Via del Falco nella zona di S. Domenico, o peggio entrare nella sventrate Chiese del Duomo e di S. Maria Paganica con i loro vari metri in altezza dell’inestricabile intruglio di pietre, opere ed arredi sacri precipitati, per rendersi conto dell’apocalittica dimensione dell’accaduto.

L’imponente campanone e le altre campane salvate dalle due torri del Duomo, con i loro impreziosenti fregi, sono ora “appiedate”, deposte una accanto all’altra, nella parte sud della piazza vicino alla scultura bronzea novecentesca del d’Antino. La loro silenziosa, paralitica immobilità, certifica l’avvenuta celebrazione dell’imprevedibile messa funebre tributata all’intera città: quand’è che torneranno a svolazzare nel loro aereo nido per risuonare gioiosamente a festa?

Per demistificare le taroccate immagini mediatiche della città ossificata, basta chiedersi e  chiedere,  in modo poco urbano – a proposito delle chiese citate e delle tante altre accomunate dall’analoga mesta sorte – cosa abbia impedito fino ad oggi alla Protezione Civile o al Ministero per i Beni Culturali d’intervenire in maniera consona alla gravità dell’accaduto. Le lievi scosse registrate negli ultimi giorni, di poco superiori ai 3 gradi Richter, continuano intanto a dare ad esse ed allo slabbrato tessuto urbano, un ulteriore colpo mortale d’“assestamento” per l’atteso KO definitivo: ogni giorno che passa, Pompei s’avvicina, come purtroppo dimostrano le voyeuristiche  comitive d’uno pseudo turismo necrofilo.

A chi è addebitabile tanta sciatteria, indegna di un Paese civile che rischia di perdere per sempre l’ingente patrimonio monumentale e artistico di una delle più belle città d’Italia e d’Europa? Per di più in presenza di elevatissime professionalità in materia di tutela, salvaguardia e restauro,  all’avanguardia nel mondo? Non certo alle Soprintendenze, la cui comprovata competenza nel territorio è stata messa in un cantuccio da una insulsa, accentratrice gestione verticistica dei pochi interventi sino a qui effettuati, del tutto insufficienti a garantire il futuro e futuribile recupero di quegli inestricabili ammassi pietrosi. Alla faccia dell’invocato rigore filologico nella  riedificazione totale o parziale degli edifici di pregio o d’epoca mediante la prassi costruttiva dell’anastilosi. Quest’ultima presuppone una scientifica catalogazione delle rovine per poter poi rimettere su pietra su pietra, frammento su frammento (anche dei numerosi affreschi andati in malora). Una prima risposta in merito la danno le miserrime risorse finanziarie destinate alla cosiddetta ricostruzione pesante in generale ed a quella dei Beni culturali in particolare.

Ma, non si tratta solamente dei miliardi e miliardi di euro mancanti all’appello rispetto alle oggettive necessità. Con un solo esempio cercherò di chiarire l’assunto critico di un pacato ragionamento. Una decina di giorni prima della celebrazione della solenne messa di Natale nella Basilica di S. Maria di Collemaggio, pile di macerie ancora ammucchiate nelle navate e il tetto sventrato facevano pena da un lato e rabbia dall’altro. Una volta decisa la riapertura natalizia, dalla forte valenza simbolica soprattutto a livello mediatico, una forsennata corsa contro il tempo (si rilegga il trionfalistico comunicato nel sito ufficiale della Protezione Civile) ha consentito così agli aquilani di rientrare, anche se per qualche ora e con lo strazio nel cuore, nella loro maciullata chiesa. A ch’era dovuta tanta solerzia? Come mai il tetto in policarbonato trasparente non era stato posizionato già all’indomani del sisma, per proteggere dalle intemperie (piogge e nubifragi verificatisi a più riprese), tutto quel ben di dio memoriale ed estetico inopinatamente precipitato? La disarmante risposta è la seguente: senza i 200.000 euro donati per la messa in sicurezza e la copertura, dalle fondazioni Bancarie e dalle associazioni delle Casse di Risparmio (da privati, cioè), ancor oggi staremmo al punto di partenza, come purtroppo siamo per il Duomo, S. Maria Paganica, S. Pietro, S. Silvestro, S. Giusta, S. Marciano, S. Vito, S. Flaviano, S. Marco e tutti gli altri Santi, Sante e Beate (mi riferisco in particolare alla chiesa della Beata Antonia in via Sassa con i suoi stupendi affreschi quattro-cinquecenteschi) abbandonati per strada quasi fossero invisibili barboni. Il pericolo delle predazioni, anche su commissione, da parte di ladri disposti a tutto, è incombente. Proprio qualche giorno fa, quasi un intero pulpito cosmatesco in marmo del XII secolo d’inestimabile valore non solo economico, è stato smontato e in gran parte portato via dalla chiesa di S. Pietro a Rocca di Botte nella Marsica. Andare nella chiesa di S. Vito alle 99 Cannelle, forzare l’attiguo cancello in ferro e prelevare a piacimento i reperti confusamente ammassati all’aperto è un giochetto da bambini. E dire che nel bilancio del Ministero per i Beni Culturali esistono stanziamenti ad hoc del tutto inutilizzati.

Allorché saranno fatti i conti in tasca alla Protezione Civile, in attesa della diffusione dei dati analitici relativi alle spese effettuate per l’inutile, farsesca  tenuta del G8 a L’Aquila, ne vedremo, molto probabilmente, delle belle. Quest’ultima affermazione scaturisce direttamente dall’inchiesta condotta recentemente dal giornale “La Repubblica” circa lo sperpero, da parte della benemerita, di 327 milioni di euro, per il mancato G8 alla Maddalena spostato all’ultimo momento a L’Aquila. Nell’isola erano state realizzate due mega-strutture di lusso a cinque stelle, oltre al recupero dell’Arsenale e via dicendo. Non solo. Mentre non si è creato alcun posto di lavoro, una serie di guasti, come soffitti crollati, intonaci scrostati e lavori non ultimati (cavi elettrici e tubi a vista) hanno dato una desolante riprova del disinvolto sperpero delle risorse finanziarie pubbliche, vale a dire della imposte e tasse pagate dai cittadini non-evasori. Dopo la denuncia dello scandalo, il dr. Bertolaso si è precipitato nell’isola per mettere una serie di toppe riparatrici. Intanto nel parlamento è in corso di approvazione la legge con cui la Protezione Civile sarà di fatto privatizzata con la sua trasformazione giuridica in Società per azioni, il cui budget s’aggirerà sui 2-3 miliardi l’anno. Un bel forziere per il sig. b. e per i futuri premier, da cui si potrà liberamente attingere con la girandola d’insindacabili ordinanze senza peraltro il “noioso” obbligo di rendicontazione alla Corte dei Conti.

Sempre a proposito di cifre, si consideri che per la prima consegna rateale-mediatica delle C.a.s.e.tte a Bazzano, sono stati disinvoltamente spesi 300 mila euro per l’affitto di telecamere, maxi-schermi, impianti elettrici e di illuminazione, computer ecc. (si veda la documentata inchiesta su “L’Espresso”).  Intanto ecco quanto hanno denunciato ieri l’altro, sui giornali, gli aquilani dirottati (circa 900) nella little towns di Pagliare di Sassa (a circa 15 km. dal capoluogo): “L’acqua caduta abbondantemente nei giorni scorsi, è pericolosamente arrivata fino alle porte degli alloggi situati a piano terra, dopodiché si è trasformata in una grossa lastra di ghiaccio. Le cadute di bambini e persone anziane, avvengono, purtroppo regolarmente”. E poi, l’ambulanza bloccata per carenza di strade d’accesso, gli scarichi mefitici, la continua mancanza d’acqua e di elettricità, con i cavi ancora a vista, e via di questo passo. Ancora: i laghetti emergenti nei pressi delle c.a.s.e.tte di Preturo e Scoppito costruite su terreni alluvionali, con conseguente riflussi. Se non ci crede, venga a constatare di persona, dr. Bertolaso!

Non fosse altro che per queste piccole questioni terra terra, non mi convince la Sua deamicisiana lettera con cui ha preso congedo da noi aquilani. Della stessa mi limito a farLe notare un lapsus freudiano, là dove testualmente scrive: “Non sono ancora passati dieci mesi dal sisma e in questo periodo, lavorando giorno e notte, abbiamo costruito l’equivalente di una nuova cittadina di 20 mila abitanti”. Bel capolavoro, dr. Bertolaso! Il suo “equivalente” di cemento, non coincide affatto con una cittadina di 20.000 abitanti, avente una sua identità storica, economica, artistica, culturale e sociale, bensì con 19, dico 19, ghetti-dormitorio del tutto avulsi, anzi alieni rispetto al precedente contesto caratterizzato da un’altissima qualità di vita.

Quanto alla suggestione antisismica delle costosissime c.a.s.e.tte “regalate”, bontà Sua e del sig. b. a fortunati terremotati tuttora sotto schoc, La prego cortesemente di prendere visione d’una significativa e-mail inviatami da un assegnatario d’un appartamentino nelle c.a.s.e.tte di Bazzano (all’indomani del sisma gli aquilani e gli altri terremotati abruzzesi hanno familiarizzato molto bene con i diminutivi di ogni tipo): “22,21 del 31 gennaio 2010. Scossa magnitudo 3,2 della scala Richter: la terra trema, la C.A.S.A. trema, anzi balla, un ballo di  due salti consecutivi, accompagnati dallo scricchiolio di mobili e finestre. Così è stato a Bazzano, a Sant’Elia, a Pagliare di Sassa! “Non sentirete niente, non vi accorgerete che fuori fa il terremoto”, aveva promesso il rassicurante Premier-Pinocchio. Ma la C.A.S.A. si muove e stramuove. È  successo con questa scossa di 3,2 come s’era già verificato qualche giorno fa con l’analoga di 2,1. Cosa avverrà  con un’onda sismica di maggiore intensità? Assolutamente nulla, dobbiamo stare sicuri. Ma il “collaudo” di questa tipologia di costruzione, in Italia, lo faremo ancora una volta noi esclusivamente sulla nostra pelle. Spero che il momento del test decisivo, secondo me già fissabile sui 4-5 gradi Richter (a 6 e rotti è meglio non parlarne), non arrivi mai. Ieri sera mia madre anziana, quando è riuscita a scendere dal letto, aveva il viso pallido e la voce in gola: ho rivisto sul suo alterato volto lo stesso terrore del 6 aprile”.  Prenda nota: a futura memoria, dr. Bertolaso!

* Critico d’arte – Art Director del Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea Angelus Novus, fondato nel 1988 (L’Aquila, Via Sassa 15, ZONA ROSSA). Attualmente “naufrago” sulla costa teramana. antonio.gasbarrini@gmail.com

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BORDER AND CYBERSPACE: SOME REFLECTIONS OF POLITICAL GEOGRAPHY

(pdf.)
Daniele MEZZAPELLE
University “G. D’Annunzio” of Chieti-Pescara, Department of Economics and History of the Territory, Italy
Luca ZARRILLI
University “G. D’Annunzio” of Chieti-Pescara, Department of Economics and History of the Territory, Italy,

http://rrgp.uoradea.ro/index_files/2009_2.htm

Abstract:

The essence of the border, as separation from the “otherness”, has

not changed in the course of history. On the contrary, the interpretation given

by the men, according to territorial and historical contexts, has undergone

radical transformations. Nowadays, it’s difficult to find an univocal feature for

the border, especially if we take into consideration the new reality of worldwide

digital connections. Telematics and virtual reality have altered the relational

sphere, and it’s necessary to find new criteria to analyze and interpret

interactions among people and territories. The question we want to deal with

here is: does the idea of border still make sense in the apparently borderless

contexts of virtual reality and cyberspace? The aim of this paper is therefore to

reflect upon the historical legacy and the functional evolution of the border and

to wonder weather this “archetype” of the human action can still play a role in

the cyberspace, where places, people and interactions are dematerialized.

 

Keywords: Border, territory, cyberspace

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La critica è potente adesso come non mai.

Come no!, Valeva la pena
Incatenarsi al passato, accogliere in grazia l’invidia del male passata per l’estrema unzione a formare una grana della voce e il canto della miseria.
Esondare dalle sponde della ragione creduta saggezza e coraggio per amare i fluidi dell’inganno dove vige la beffarda maledizione del mito.
Appagarsi di una miseria fatta di pavida natura obbligata a respirare dai polmoni degli uomini e donne comuni e vedere il respiro di quei fluidi muovere i tanti esseri dentro, no! Dentro e intorno,no! Ancora più forte: il respiro dei tanti noi che ci conteniamo; noi eserciti velati cercatori di canali morbidi del mito che dia senso e valore ironico o maligno a un qualsiasi meandro scelto o giocato per caso.
Valeva la pena conoscerli, conoscerci. Era necessario incontrare l’archetypo centrale e qui lottare, l’eroe e la bestia, per dare libero accesso a Sisifo di transumare nelle colonie dell’altro per assumerne le pene.
È il senso del mondo.
Sono vertebre degli dei che costringono gli uomini in amicizia a sentirsi dentro con mani incatenate strette le une alle altre; mentre fuori suona la disperazione si armonizza la fratellanza tra demoni e grazia che pure esisteva.
Era il canto della vipera in digestione del fringuello catturato.
Valeva la pena capirlo. Capirsi.
Credo, il canto dei morti mantenga vivo il segreto delle azioni dei vivi. I nostri morti cantano sempre per noi. Chi non conosce l’Oriente e la solitudine vaga elemosinando parole che mai gli serviranno. Sono quei demoni , i demoni del nulla. Sono i ventri squarciati dei cavalli , i pistoni liquefatti dall’arsura del deserto, sono mille gavette di ghiaccio o il pianto dell’ebreo catturato dagli eredi degli ariani; dualità degli opposti condivisa nel destino immortale. Due archetypi formidabili del vagare eterno alla ricerca dei confini e gli spiriti stanziali boschivi imposti dall’amore. Gotico della sabbia e delle piante giocato nel rituale del tempio e della cattedrale.
Valeva la pena capirlo, capirsi. Tentare l’estremo cordoglio per uomini inutili senza speranza. Falsi poeti del segno mutilato e maligno che non soddisfa e porta povertà. Sono gli artisti dallo spirito vuoto in cerca di una meta e che appellano “lei” l’amico del gioco.
Valeva la pena capirlo, credere nel cardinale sapendo si trattasse di uno schietto sacrestano di nome gervasio che gratta le elemosine dei fedeli illusi di fare bene al mondo.
Valeva la pena capirlo, capirsi…

PILO’ (vincitore del premio Termoli 2008)

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Dans le cadre des conférences des Amis de

l’Université,


Joël PÈLERIN


(Docteur en médecine / photographe d’art)

présentera
L’ASPECT THÉRAPEUTIQUE


DU NU ARTISTIQUE


le mardi 2 février à 18h15


Centre culturel Alpha Saint-Pierre
Avec le concours du Service culturel de Saint-Pierre –  contact 0692 77 49 20

Yves BOSQUET

Président des Amis de l’Université
amis@univ-reunion.fr
tél : 06 92 77 49 20
fax : 02 62 35 65 60