Aprile 2007


ruota-della-vita2.jpgEmergence-142.jpggate2.jpg  La sciamanizzazione dell’arte
 Antonello Colimberti
 
“Il maestro di metamorfosi acquista effettivo potere quale sciamano.
 Durante i suoi accessi estatici, egli aduna presso di sé spiriti che sottomette,
parla la loro lingua, diviene un loro pari e può comandarli al loro modo.
Diviene uccello quando viaggia per i cieli e animale marino
 quando scende in fondo al mare.
Egli può tutto; il parossismo che raggiunge
deriva dall’accresciuta e rapida sequenza di metamorfosi
che lo scuotono finché non ha scelto fra di esse il suo vero scopo.”
 
 
Georges Lapassade ha definito come società dello sciamanesimo quelle che «trasformano le allucinazioni in visioni» (Lapassade 1993, p. 16). Ebbene, ciò è proprio quello che la nostra cultura attribuisce al malinconico”.
Tale procedura di trasformazione dell’allucinazione in visione è ben descritta da Giorgio Agamben, sulla scia di alcune intuizioni freudiane : «se il mondo esterno è infatti narcisisticamente negato dal malinconico come oggetto d’amore, il fantasma riceve però da questa negazione un principio di realtà ed esce dalla muta cripta interiore per entrare in una nuova e fondamentale dimensione. Non più fantasma e non ancora segno, l’oggetto irreale dell’introiezione malinconica apre uno spazio che non è né l’allucinata scena onirica dei fantasmi, né il mondo indifferente degli oggetti naturali; ma è in questo intermediario luogo epifanico, situato nella terra di nessuno fra l’amore narcisistico di sé e la scelta oggettuale esterna, che potranno collocarsi le creazioni della cultura umana <...> è nello spazio aperto dalla sua ostinata intenzione fantasmagorica che prende avvio l’incessante fatica alchimica della cultura umana per appropriarsi del negativo e della morte e per plasmare la massima realtà afferrando la massima irrealtà» (Agamben 1977, pp. 32-33). Queste parole, nel delineare un rapporto stretto fra malinconia e cultura nelle civiltà umane, ci suggeriscono già il rapporto decisivo, che indicheremo in seguito, fra sogno e cultura nello sciamanesimo. Ma dalle analisi di Agamben possiamo individuare, oltre alla malinconia, un altro tratto pertinente alla conoscenza dello sciamanesimo: il feticismo: «come nella Verleugnung feticista, nel conflitto fra la percezione della realtà, che lo costringe a rinunciare al suo fantasma, e il suo desiderio, che lo spinge a negare la percezione, il bambino non fa né una cosa né l’altra, o, piuttosto, fa simultaneamente le due cose, smentendo, da una parte l’evidenza della sua percezione e riconoscendone dall’altra la realtà mediante l’assunzione di un sintomo perverso, così, nella malinconia, l’oggetto non è né appropriato né perduto, ma l’una e l’altra cosa nello stesso tempo. E come il feticcio è, insieme, il segno di qualcosa e della sua assenza, e deve a questa contraddizione il proprio statuto fantomatico, così l’oggetto dell’intenzione malinconica è nello stesso tempo reale e irreale, incorporato e perduto, affermato e negato» (Ibidem, pp. 26-27). Tali caratteri, che nelle pagine successive del suo lavoro Agamben estende ad alcuni procedimenti del linguaggio come la metonimia e la metafora, nonché alla sfera oggettuale dei giocattoli e della merce, ci sembrano particolarmente appropriati per cogliere il senso degli oggetti rituali sciamanici. L’impostazione ideologica «metafisica» di Mircea Eliade, infatti, non ci sembra cogliere nel segno con la sua interpretazione tesa a riconnettere il simbolismo degli oggetti rituali sciamanici ad un significato cosmico (manifestazione dell’illud tempus primordiale, ecc.).  Ciò che ci sembra discutibile di tale impostazione non è tanto il suo vero o presunto «irrazionalismo», quanto la sua persistente «semiologia». In altri termini, per quanto Eliade venga spesso incluso fra i maestri di un’«ermeneutica instaurativa» , non si può non cogliere i limiti di una riduzione delle immagini ai loro significati, da lui costantemente praticata. Ad esempio, nel parlare del simbolismo del costume sciamanico, Eliade scrive che «il costume sciamanico costituisce di per sé una ierofania ed una cosmografia religiosa: esso non rivela soltanto una presenza sacra ma anche simboli cosmici e itinerari metapsichici. Ove lo si esamini attentamente,il costume ci dà a conoscere il sistema dello sciamanismo nella stessa trasparenza propria ai miti e alle tecniche sciamaniche » (Eliade 1992, p. 169).Questa lettura è molto più «semiologica» che «simbolica»; eppure il riferimento ai sogni del candidato avrebbe dovuto mettere sull’avviso Eliade che lo sciamano non “riduce” i simboli, neppure interpretandoli in chiave «cosmica» o «metafisica», ma li “amplifica”, attraverso una specifica “arte del sognare”: «Il candidato nei suoi sogni deve riuscire a vedere il luogo esatto ove si trova il suo futuro costume e deve poi andare lui stesso a cercarlo»(Eliade 1992, p. 171).Il modello semiologico si pone sotto il segno di Edipo, quello simbolico sotto il segno della Sfinge: «ogni interpretazione del significare come rapporto di manifestazione o di espressione (o, all’inverso, di cifra e occultamento), fra un significante e un significato (e tanto la teoria psicoanalitica del simbolo che quella semiotica del linguaggio appartengono a questa specie) si pone necessariamente sotto il segno di Edipo, mentre si pone invece sotto il segno della Sfinge ogni teoria del simbolo che, rifiutando questo modello, porti innanzitutto la sua attenzione sulla barriera fra significante e significato che costituisce il problema originale di ogni significazione» (Agamben 1977, p. 165) .
Agamben tratta tale problema nella parte IV del suo volume, non a caso intitolata L’ immagine perversa. Anche lo psicanalista James Hillman, nel riprendere alcune intuizioni di Gaston Bachelard sull’attività deformante dell’immaginazione , parla di «patologizzazione» dell’immagine: «l’immagine patologizzata o deformata è fondamentale per l’alchimia e per l’arte della memoria, che presentano entrambe metodi complessi per fare anima. È all’immagine patologizzata del sogno, alla figura bizzarra, particolare, malata o ferita- l’elemento di scompiglio- che dobbiamo rivolgerci per trovare la chiave del lavoro del sogno. <...> La deformazione patologizzata che restituisce a un’immagine la sua capacità di perturbare l’anima al punto che, portando un’immagine in prossimità della morte la fa al tempo stesso rivivere. Perché è il sogno scioccante, di cui è paradigma l’incubo quello che maggiormente ricordiamo, quello che risveglia la memoria dell’anima» (Hillman 1996, pp. 122-124). Quale esempio migliore da questo punto di vista si può dare se non quello relativo ai sogni iniziatici sciamanici? Vasta è la bibliografia su smembramenti del corpo, lacerazioni della carne e torture varie. Basti il seguente riassunto di Eliade: «i momenti importanti di un’iniziazione sciamanica comportano: 1. la tortura e la lacerazione del corpo; 2. il raschiamento delle carni fino alla riduzione del corpo a scheletro; 3. la sostituzione delle viscere e il rinnovamento del sangue; 4. un soggiorno abbastanza lungo agli Inferi, durante il quale il futuro sciamano viene istruito dalle anime degli sciamani morti e da “demoni”; 5. un’ascensione al Cielo per ottenere la consacrazione dal Dio del Cielo. A differenza dei neofiti delle altre iniziazioni, il futuro sciamano subisce in modo più radicale l’esperienza della morte mistica. Egli rischia più di una volta di precipitare nella “pazzia”, e affronta questo pericolo nella speranza di accedere a un’esistenza totalmente diversa dall’esistenza profana» (Eliade 1988, p. 147).Questo riassunto va tenuto costantemente a mente se, parafrasando Hillman , si vuole lavorare sullo sciamanesimo tenendo dietro al lavoro dello sciamanesimo. Studiare lo sciamanesimo dal punto di vista della Sfinge e non di Edipo non esclude l’analisi, ma implica un atteggiamento diverso da quello consueto. Insiste Hillman : «il dividere in parti analitico è una cosa e l’interpretazione concettuale è un’altra. Può esserci analisi senza interpretazione. L’interpretazione trasforma il sogno nel suo significato. La traduzione del sogno prende il posto del sogno. La dissezione invece opera un taglio nella carne e nelle ossa dell’immagine, esamina il tessuto delle sue connessioni interne e si muove tra i suoi pezzi, eppure il corpo del sogno è ancora lì, sul tavolo. Non ci siamo chiesti che cosa significa, ma chi, che cosa, e come è» (Hillman 1996, p. 124).
Rinunciare a ridurre lo sciamanesimo ad una costellazione di significati, palesi od occulti che siano, non significa mettersi a sciamanizzare tout-court, ma assumere innanzitutto il punto di vista della conoscenza onirica, mettendo da parte ogni idea di sciamanesimo come esoterismo, in cui presunti iniziati detengono la conoscenza di significati occulti solo da essi trasmissibili; l’origine di tali concezioni “esoteriche” fa tutt’uno con le culture cosiddette “alte”, nelle quali si attua un passaggio, come efficacemente sintetizza Francesco Saba Sardi a proposito dell’avvento degli Incas, “dallo sciamano al sovrano”: «se lo sciamano cerca la solitudine, diventa sognatore, ha visioni, il sovrano si circonda di solitudine (è solo in cima al suo inaccessibile trono) le sue visioni si traducono in scelte politiche, il suo comportamento è bizzarro e idiosincratico (capricci di re) <...> Se lo sciamano è concretamente dotato di “poteri meravigliosi”, che rivelano l’accesso allo stato di ek-stasis, il sovrano domina le forze: vince l’acqua che incanala, la siccità che previene con l’accortezza, la carestia alla quale ovvia creando scorte di viveri. Non ha effettivi “poteri meravigliosi”, ma è come se li avesse: gli vengono attribuiti senz’altro ex lege <...> Mentre lo sciamano non pretende di essere un dio, il sovrano tale si dichiara. Gli sciamani sono dunque al suo servizio e, a tale scopo, li isola in santuari, li chiude in recinti, li obbliga a pronunciare profezie a lui favorevoli<...> Ancora, se lo sciamano “ascende” o “discende” lungo l’albero-centro del mondo per raggiungere il cielo o il mondo ctonio, il sovrano dichiara il santuario, il palazzo, la città regale centro del mondo» (Saba Sardi 1982, pp. XLV-XLVI).   Alla subordinazione della conoscenza onirica nell’ antichità, con il connesso statuto dell’immaginazione che essa possedeva, fa seguito la sua emarginazione nella modernità, con la conseguente nascita della follia:« e, dal momento che è la fantasia che, secondo l’antichità, forma le immagini dei sogni, ciò spiega il particolare rapporto che, nel mondo antico, il sogno intrattiene con la verità e con la conoscenza efficace. Ciò è ancora vero nelle culture primitive…l’espropriazione della fantasia si manifesta nel nuovo modo di caratterizzarne la natura: mentre essa non era, in passato, qualcosa di soggettivo, ma era piuttosto la coincidenza di soggettivo e oggettivo, di interno e di esterno, di sensibile e intelligibile, ora è il suo carattere combinatorio e allucinatorio, che l’antichità relegava sullo sfondo, a emergere in primo piano. Da soggetto dell’esperienza, il fantasma diventa il soggetto dell’alienazione mentale, delle visioni e dei fenomeni magici, cioè di tutto ciò che resta escluso dall’esperienza autentica». (Agamben 1978, p. 19). Se questo è vero, allora la dimensione onirica nelle società sciamaniche non è uno specifico aspetto della cultura, quanto la modalità che fonda la conoscenza e dunque la cultura stessa. Tra coloro che meglio hanno colto questo punto essenziale vi sono l’etnopsichiatra George Devereux e, sulla sua scia, l’antropologo Roger Bastide., i quali hanno segnalato i limiti etnocentrici delle attuali teorie sul sogno. Devereux, in particolare, riferisce, a proposito della cultura mohave (in questo non dissimile da altre culture sciamaniche), che, contrariamente a quanto sostiene Mircea Eliade, il mito non è riattualizzazione dell’illud tempus primordiale, ma creazione continua. La cultura sciamanica non è «contro» la storia, piuttosto per essa storia e sogno sono inscindibili: «il mito della creazione è , d’altronde, un’opera incompiuta. Il mito della creazione, quale era raccontato, per esempio nel 1900, contiene semplicemente quelle porzioni della creazione che erano state rivelate in sogno fino a quell’epoca. Così, quando le armi da fuoco fecero la loro apparizione e inflissero ferite da pallottole, uno sciamano sognò subito di essere stato testimone di quella fase della creazione che si riferiva alla istituzione iniziale –prototipo costituente un precedente-di ogni ferita da arma da fuoco e della sua guarigione. In linea di principio, domani o il giorno dopo, uno sciamano mohave può sognare la creazione di ustioni dovuti a radiazioni o il mal di spazio e la loro cura. Questi nuovi sogni esigono automaticamente un completamento delle versioni anteriormente conosciute del mito della creazione, così come la scoperta di un nuovo fossile impone l’aggiornamento di un manuale di paleontologia pubblicato precedentemente. » (Devereux 1978, p.291). La conclusione è esplicita: “soltanto il sogno rende valido l’apprendimento culturale: chiunque può imparare a cantare un canto terapeutico, ma questo è una terapeutica inefficace e rimane un atto puramente extraculturale e individuale, se non è appoggiato e convalidato da sogni sciamanici appropriati…mi sembra che i Mohave interpretino la loro cultura in termini di sogno, anziché interpretare i loro sogni in termini di cultura” (Ibidem, p.293).
A partire dalle conclusioni di Devereux, Bastide formula una vera e propria “teoria generale del sogno”, nella quale contrappone la «naturalizzazione del sogno presso i primitivi» alla «culturalizzazione del sogno negli occidentali» . Nel primo caso il sogno «permette il passaggio, dal soggettivo al collettivo, attraverso la comunicazione ad altro e l’accettazione degli altri» (Bastide 1976, p. 56). Ma nel secondo caso «si è spezzato il legame tra il sogno e la realtà per respingere il primo nell’immaginario e costruire la realtà sull’efficacia» (Ibidem p. 58). Sono due processi, quello del primitivo e quello dell’occidentale, decisamente antitetici. Come riassume ancora Bastide «separando l’onirico dal mondo reale, facciamo dell’onirico un “aldilà del mondo”, un “altro luogo”; possiamo certamente compiacerci in lui (per reazione alla nostra società industriale e costruire, per la nostra gioia, ogni giorno nuove fabbriche di sogni opposte alle fabbriche dei prodotti di consumo pratico), ciò non toglie che in noi il sogno non abbia più legami con la storia o la metafisica, perlomeno per gli “spiriti forti”. Al contrario, per i primitivi il sogno è incorporato nella realtà, segue la storia, fabbrica la storia e nello stesso tempo è il riflesso del trascendentale, la parola esplicitata dei morti e degli dei» (Ibidem, p. 61)
Se questo è vero, allora possiamo cogliere il punto di contatto “politico” fra la funzione dello sciamano e il compito dell’intellettuale, definito da Benjamin «solo ex negativo: egli “deve organizzare il pessimismo” e portare avanti “la distruzione dialettica” delle immagini false sulle cui proiezioni si costruisce lo spazio sociale. <...> Le manifestazioni storiche della società vengono comprese come immagini oniriche: è compito dello storico interpretare la loro complessa dinamica. Lo storico, esattamente come il Messia nel giorno del compimento della storia, ha il compito di rimettere a posto le immagini “impazzite”, e, in questo modo, di attribuire al mondo il suo vero significato» (Witte 1991, pp. 106-108). 
Si compie così il passaggio “dal sovrano allo sciamano”, fine della storia e inizio del regno messianico secondo Benjamin, per il quale «comprendere la storia dell’umanità come il suo sogno, significa capire che le vere pulsioni e i veri desideri dell’umanità, ad esempio quelli di compimento e di felicità, trovano espressione nella storia solo in forma spostata, censurata e rimossa. Questo lavoro onirico preclude all’umanità la possibilità del risveglio che porterebbe alla fine della storia e all’inizio del regno messianico. La dottrina dei sogni storici del collettivo riflette quindi il volto ambivalente dei fenomeni storici che esprimono sia il fallimento che, nel contempo, la riuscita  <...> Per non riprodurre semplicemente il sogno, come fanno Aragon e i surrealisti, rimanendo però all’interno del mito, è necessario analizzarlo, riconoscere e sciogliere il “nesso espressivo” esistente fra la situazione economica del XIX secolo e le sue strutture socio-culturali e portare in questo modo alla superficie il contenuto utopico in esso racchiuso. La dialettica è lo strumento di quest’analisi, il “montaggio letterario” il suo metodo» (Witte 1991, p. 180).
 Ma l’uso del termine «dialettica» va oggi specificato in «dialettica immobile» e/o «dialettica sincretica».
Il primo termine (dialettica immobile) è utilizzato da Agamben per definire proprio la concezione benjaminiana, che sopprime radicalmente la separazione fra struttura economica e sovrastruttura culturale: «lo storico che vede separate davanti a sé struttura e sovrastruttura e cerca di spiegare dialetticamente l’una in base all’altra (in un senso o nell’altro, secondo che lui sia idealista o materialista), può essere assimilato al chimico di cui parla Benjamin, che vede solo legna e cenere, mentre il materialista storico è l’alchimista, che tiene fisso lo sguardo sul rogo in cui, come tenore cosale e tenore di verità, così struttura e sovrastruttura tornano a identificarsi» (Agamben 1978, p. 126).
Il secondo termine (dialettica sincretica) è utilizzato da Massimo Canevacci che vi perviene attraverso i concetti di «dialettica negativa» di Theodor Wiesegrund Adorno e «dialettica spezzata» di Paul Ricœur: «quanto la dialettica sintetica pulisce, ordina, classifica, supera, tanto la dialettica sincretica sporca, disordina, mescola, frammenta e giustappone. Trasloca. Nel sincretismo culturale il montaggio o il collage perviene dentro la stessa metodologia della ricerca e della rappresentazione» (Canevacci 1995, p. 40).
Su queste basi possiamo comprendere quella saldatura fra immaginazione messianica e conoscenza onirica che assillò la mente di Walter Benjamin, come ci segnala il seguente commento di Ferruccio Masini: «le forze dell’ebbrezza possono essere conquistate per la rivoluzione solo ad opera di quella surdeterminazione della dynamis profana che la rende produttiva di effetti trasferendoli sul vettore, diretto in senso opposto, della “intensità messianica” <...> L’illuminazione profana ha a che fare col quotidiano e con il mistero quando riguarda l’ebbrezza come luogo aporetico, in cui, appunto, quotidiano e mistero s’incrociano» (Masini 1983, p. 24).
Parafrasando Benjamin,  possiamo dire che oggi alla spettacolarizzazione dello sciamanesimo, si debba rispondere con la sciamanizzazione dell’arte.
Se la spettacolarizzazione dello sciamanesimo traduce il mondo dello sciamano nel mondo della veglia, la sciamanizzazione dell’arte restituisce piuttosto il mondo della veglia al mondo dello sciamano. Da questo punto di vista potremmo assimilare quest’ultimo lavoro a quello di uno specchio deformante, che restituisce appunto un’immagine spostata, una prospettiva rovesciata. Ma questo è dopo tutto proprio il senso di una escatologia realizzata, la quale non attende il millennio perché si sa già avvenuta. Escatologia realizzata è il paradosso per cui l’ostacolo è la chiave, il quotidiano il mistero, ovvero, sciamanicamente, la follia è la guarigione.
 
BIBLIOGRAFIA –
 
-Giorgio AGAMBEN:
 1977: Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi,  Torino.
 1978: Infanzia e storia. Saggio sulla distruzione dell’esperienza, Einaudi,  Torino.
 
-Roger BASTIDE:
 1976: Sogno, trance, follia (1972), Jaca Book, Milano.
 
-Walter BENJAMIN
1966: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Einaudi, Torino.
 
-Elias CANETTI:
1981: Masse e potere (1960), Adelphi, Milano.
 
-Massimo CANEVACCI:
1995: Sincretismi. Una esplorazione sulle ibridazioni culturali, Costa &  Nolan, Genova.
 
-Georges DEVEREUX:
1978: Saggi di etnopsichiatria generale, Armando Armando, Roma.
 
-Gilbert DURAND:
1977: L’immaginazione simbolica (1964), Il Pensiero Scientifico, Roma.
1996: L’immaginario. Scienza e filosofia dell’immagine, Red, Como.
 
-Mircea ELIADE:
1988: La nascita mistica – Riti e simboli d’iniziazione (1958), Morcelliana,  Brescia.
 1992: Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi (1951), Edizioni Mediterranee,  Roma.
 
-René GUÉNON:
 1982: Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi (1945), Adelphi, Milano.
 
-Michael HARNER
          1995: La via dello sciamano, Edizioni Mediterranee, Roma
 
-James HILLMAN:
 1996: Il sogno e il mondo infero, EST, Milano.
 
-Georges LAPASSADE:
 1993: Stati modificati e transe, Sensibili alle Foglie, Roma.
 
-Ferruccio MASINI:
 1983: Dialettica dell’ebbrezza, in AA. VV., Walter Benjamin: tempo, storia,  linguaggio, Editori
 
-Francesco SABA SARDI:
 1982: Introduzione a Inca Garcilaso de la Vega, Commentari reali degli Incas,  Rusconi, Milano, pp. V-LXXVIII.
 
-Dan SPERBER:
1981: Per una teoria del simbolismo-Una ricerca antropologica (1974), Einaudi, Torino.
 
-Danièle VAZEILLES:
 1993: Gli sciamani e i loro poteri, Edizioni Paoline, Milano.
 
-Bernd WITTE:
1991: Walter Benjamin, Lucarini, Roma.
 
-Elémire ZOLLA:
 1986: Il decennio 1970-1980, in “Fondamenti”, n. 4, pp. 175-192.
 1992: Uscite dal mondo, Adelphi, Milano.
 
Tutti noi viviamo migliaia di esistenze.
Molti ormai in Occidente credono questo e la chiamano reincarnazione.
Quasi tutti immaginano che queste migliaia di incarnazioni si succedano nel tempo una dopo l’altra, come le perle di una collana.
Ma non è così perché al di fuori di questa realtà il tempo non ha significato.
Le nostre moltissime vite non sono una collana, ma piuttosto sono come migliaia di foglie che galleggiano sparse su un fiume.
Ciò significa che voi potreste star vivendo un’altra vita in qualche altro luogo, senza che questa sia ancora finita, perché il tempo nell’Altra realtà, dove tutto ha origine, non ha significato.
Se del flusso di foglie che scorre nel fiume considerate solo quelle che si succedono nel tempo, allora avete la reincarnazione che conoscete. E sembra che la vostra anima trasmigri dall’una all’altra.
Gli antichi maestri parlarono soltanto di queste tra le nostre molte esistenze perché si rivolgevano a persone che non potevano assolutamente concepire nulla al di fuori del tempo.
 
 LEGGE  DEL FLUSSO:
Il tempo è un’illusione di questa Realtà.
Nell’Altra Realtà non esiste.
 Il flusso di esistenze è conoscenza antichissima di molti sciamani ed è stata finora tenuta segreta, accessibile solo a pochi eletti, passata di bocca in bocca da sciamano a sciamano.
Quello che leggerete qui viene forse rivelato per la prima volta al mondo.
Il mio maestro, i miei Spiriti alleati ed io abbiamo deciso di cominciare a rendere pubblica questa sapienza esoterica, perché le persone, molto più di un tempo, sono pronte per conoscerla.
 
La Ruota delle Incarnazioni della tradizione buddista. Alla pari del karma, è una semplificazione
Gli antichi maestri, come il Buddha, si limitarono a parlare delle esistenze che si succedono nel tempo, perché il loro uditorio non poteva concepire nulla al di fuori del tempo.
 
 
Esistenze collegate
Le migliaia di esistenze che ciascuno di noi vive si influenzano tra loro perché connesse le une alle altre come da una rete o come le foglie dalle acque del fiume che le trasporta.
Gli antichi maestri orientali parlarono del karma come di un’influenza causa-effetto che le vite più antiche esercitano su quelle più recenti.
Come ho detto essi dovettero limitarsi a parlare di quelle esistenze che si succedono nettamente nel tempo. Ma la causa-effetto, come il tempo, è un’illusione di questa Realtà.
Invece tutte le esistenze del Flusso si influenzano le une le altre e la vita che viviamo qui e ora può venir influenzata anche dalle nostre vite future. E ovviamente da quelle che stiamo vivendo adesso, altrove, in contemporanea con questa.
 
Le nostre esistenze sono collegate tra loro proprio come lo sono le numerosissime parti del nostro corpo.
Una nostra singola vita è come una delle nostre unghie o dei nostri capelli: è connessa al resto del corpo, il suo ruolo nel destino del corpo può essere talora importante, ma più spesso marginale, e soprattutto il vero essere vivente è l’intero nostro organismo, non la singola unghia o il capello.
Allo stesso modo la nostra vera vita è il flusso di tutte le nostre esistenze, non la singola esistenza.
 
 
 
La nostra vera vita
Essendo chiusi nella nostra singola esistenza, crediamo che la nostra vita sia tutta lì, al più pensiamo che quando moriremo la nostra anima trasmigrerà in un’altro corpo per vivere un’esistenza successiva.
In realtà la vera vita di ciascuno di noi è il flusso di tutte le sue esistenze, non le singole foglie, ma il fiume.
Purtroppo ogni foglia è consapevole solo di se stessa e così non capisce il senso della sua vita.
Immaginiamo che la vostra consapevolezza sia tutta chiusa nell’unghia del mignolo della mano destra: voi sapete di essere un’unghia e capite solo ciò che riguarda un’unghia.
Tutta la vostra persona sta – supponiamo – camminando per andare ad accendere un televisore.
Voi, chiusi nell’unghia del mignolo, vi interrogate intanto sul senso della vostra vita:
 
LEGGE 1 DEL FLUSSO:
 
Ogni complicazione è illusione.
La Realtà vera è SEMPLICE.
 
 
  sentite che andate insù e ingiù (perché nel camminare dondolate le braccia!) e fate complicate teorie sul perchè andate su e giù. E poi altre teorie sui complessi movimenti che il corpo di cui fate parte – ma di cui ignorate tutto – fa per accendere il televisore.
Le spiegazioni che trovate alle vicissitudini della vostra esistenza sono complicate, più o meno sbagliate e forse ridicole.
 
 
Ma se qualcuno vi dicesse che state camminando per andare a accendere un televisore, voi unghia non capireste di cosa parla: voi sapete di cose che riguardano le unghie, di venir tagliate, di forbici e limette, non sapete cosa significa camminare, tantomeno accendere un televisore!
Quello che tutta la vostra persona sta facendo è semplicissimo: va ad accendere la tv.
Ma osservato dal punto di vista dell’unghia è un moto terribilmente complicato e incomprensibile.
Il moto di una singola foglia sull’acqua, fatto di dondolii, mulinelli etc. è complicato, visto nell’insieme è il semplice flusso di foglie trasportate dalla corrente del fiume.
La realtà vera è semplice, tutto è semplice.
Ci appare complicata perché siamo consapevoli solo di questa singola esistenza.
 
 
 
Entrare nel Flusso
Noi non siamo normalmente consapevoli delle altre nostre esistenze.
C’è la coscienza dell’unghia del mignolo, chiusa tutta nell’unghia del mignolo, la coscienza del capello, dell’occhio destro, ma l’unghia non diventa mai consapevole di tutto il corpo, rimane sempre confinata nel suo piccolo spazio.
Questo è il limite che ci impedisce di comprendere il senso dell’Universo e della nostra stessa vita.
Molti sciamani però e molti grandi maestri sono in grado di espandere la coscienza fino a diventare consapevoli delle altre loro esistenze e perfino di tutto il flusso delle loro esistenze.
Questa enorme espansione della coscienza è chiamata dagli sciamani entrare nel flusso.
 
 
Sotto la guida del mio maestro ho imparato a entrare nel Flusso molti anni fa e questo mi ha aperto orizzonti di conoscenza che non posso descrivere. Non posso perché non li capireste, perché non ci sono parole adatte stando “chiusi nell’unghia”. E’ una sapienza che va sperimentata per poterla avere.
 
Diventare consapevoli di altre esistenze può non sembrare niente di nuovo. In molte meditazioni e pratiche moderne, si diventa (o si crede di diventare) consapevoli di vite passate.
 
 LEGGE 2 DEL FLUSSO:
 
 
Noi tutti viviamo migliaia di esistenze che si influenzano le une le altre. 
 
Ma questo serve solo a soddisfare una curiosità o a dare spiegazione di qualche problema psicologico o spirituale.
Entrare nel Flusso è ben altro: quando espandi la consapevolezza al flusso, prima di tutto vedi per la prima volta il senso vero della tua vita (cioè dell’insieme delle tue esistenze) e di dove stai andando.
La seconda cosa poi è meno grande, ma forse più sorprendente: in ogni nostra esistenza noi accumuliamo conoscenza e potere, ma a causa della mancata consapevolezza, questa conoscenza e questo potere solo in minima parte riescono a trasferirsi alle altre nostre esistenze.
Entrando nel Flusso possiamo invece prendere prendere e fare nostre in questa esistenza le esperienze e il potere di altre vite. Di quelle passate, di quelle presenti e perfino di quelle future!
Possiamo anche rafforzare e cambiare le nostre vite più deboli e sfortunate, dando loro la conoscenza e il potere di questa nostra vita o di altre.
E questo cambiamento in meglio si rifletterà nella nostra vita presente. Perché?
Perché cambia da negativo a positivo l’influsso che quella vita sfortunata o sbagliata ha su quella attuale. Come dire che cambiamo il nostro karma.
Tutto ciò può suonare incredibile. Possiamo allora migliorare una vita passata? Possiamo dunque cambiare il passato?
Sì, possiamo farlo. Perché il tempo è solo un’illusione, non ha significato.
 
 
Come ho già detto un’unghia non sa che il corpo cui appartiene sta andando ad accendere un televisore. Non capirebbe neanche cosa significa accendere un televisore, e anzi non sa neppure di appartenere a un corpo.
Lo stesso accade a ciascuno di noi, chiuso nella propria singola minuscola esistenza, rispetto al Flusso.
Ma cosa fa il Flusso cui appartengo, dove sta andando?
Può sembrare incomprensibile: se il Flusso è fuori del tempo, se nell’Altra Realtà il tempo non esiste, come può il Flusso andare in qualche luogo? Come può evolversi?
Eppure si evolve.
Questo non può essere spiegato a parole, dev’essere sperimentato come molte verità dello sciamanesimo. Ma esiste un’evoluzione che è al di fuori, al di sopra del tempo.
Lo farò sperimentare, capire in pratica nei Cerchi di Tamburo sul Flusso.
 
 
 
LEGGE 3 DEL FLUSSO:
 
La nostra vera vita è il Flusso di tutte le nostre esistenze, non la singola esistenza.
 
 
  Il flusso dunque ha un “destino”. Su questo “destino” la singola esistenza ha spesso poco peso, talora è perfino irrilevante, ma può anche contribuirvi molto o al contrario essergli di impaccio.
Destino è tra virgolette perché non è un destino scritto una volta per tutte, esso può venir cambiato, così come possiamo cambiare il nostro “destino” individuale.
 
 
 
Entrando nel flusso, ossia allargando la propria coscienza al flusso, come gli sciamani sanno fare, possiamo orientare meglio il nostro flusso verso il suo “destino”, anche correggere il “destino” cioè la direzione dove il flusso sta andando, e possiamo far sì che questa nostra esistenza dia a tale direzione un forte contributo.
 
 
 
 
La Via Lattea che quasi tutti i popoli antichi dicevano essere il luogo dove vanno le anime dopo la morte.
Di fatto il Flusso appare nelle visioni e agli sciamani che vi entrano come una Via Lattea in movimento, dove le stelle sono le numerose esistenze.
 
 
 
Fortuna e felicità vengono dal Flusso
Quando viene da me una persona sofferente afflitta da cattiva sorte o mancanza di potere personale, spiego sempre che la fortuna non è che il fluire della Vita.
L’espressione Non è che è uno scherzo, poiché il fluire della Vita è la cosa più importante del mondo per delle creature viventi!
La Vita ha le sue leggi e, come un fiume, segue un suo corso.
Quando ci adattiamo alle leggi della Vita e il nostro agire, i nostri desideri sono allineati con corso del “fiume”, abbiamo fortuna e potere.
Se siamo ai margini del “fiume” la situazione è per noi neutra.
Quando invece i nostri obiettivi sono contro-corrente, abbiamo sfortuna.
Se la sfortuna si prolunga per molti anni, spesso vuol dire che, per posizioni ideologiche o per esperienze male interpretate, abbiamo convinzioni in contrasto con le leggi della Vita e quindi ci mettiamo al di fuori della sua “corrente” e del suo potere.

Se accettiamo umilmente le leggi della Vita e ci allineiamo ad esse, la nostra sorte cambierà.
 
Talora però questo non basta a darci vera fortuna e felicità.
Esiste infatti una fortuna di livello più alto. Questa viene dal Flusso.
Quando la nostra esistenza è allineata al nostro flusso, ossia contribuisce al “destino” del flusso, ne avremo fortuna.
Se invece è irrilevante o quasi al cammino del flusso, allora non saremo aiutati né danneggiati.
Se addirittura la nostra esistenza va contro il flusso, è di impaccio al suo cammino (o “destino”) allora potremo averne malasorte e infelicità.
 
Perciò quando, entrando nel flusso, modifichiamo la nostra esistenza per farla contribuire molto al cammino del nostro flusso, non soltanto ci impegniamo per il vero scopo della nostra vita – ma ne abbiamo di riflesso, come premio se volete, un dono di fortuna e potere e soprattutto ci si schiudono le porte della felicità.
Poiché, fortuna a parte, solo scoprire il senso della nostra vita, la vera vita e lavorare per esso può renderci felici.
 
 
 
Le Porte del Flusso
Una delle cose più stupefacenti entrando nel Flusso è scoprire che molte cose cui noi attribuiamo la massima importanza, sono in realtà, nella realtà vera, del tutto irrilevanti oppure non esistono affatto.
Non soltanto non esiste il tempo, ma molte delle nostre certezze sono completamente inventate e molti dei nostri valori sono fantasticherie o roba insignificante.
Non posso qui farvi degli esempi, perché non li capireste oppure non ci credereste! Sono cose da sperimentare di persona.
 
Per entrare nel Flusso esistono Porte, note agli uomini fin dalla più remota antichità.
I nostri avi già nell’età della pietra, sapevano come entrare e uscire dal Flusso.
Ma poi in tempi remotissimi queste Porte vennero chiuse e sigillate.
Furono gli uomini stessi, o meglio i loro capi, a farlo per impedire a quelli più deboli di perdersi. Essi costruirono dei sistemi di credenze e di valori intorno alla loro piccola esistenza, sistemi che spiegassero il mondo e il senso della vita dal punto di vista dell’unghia. Un mondo fittizio al cui centro ci fosse non la persona vera (il flusso), ma l’unghia.
Chiusero le Porte per entre nel Flusso e solo ai grandi sacerdoti o sciamani fu concesso di aprirle. Anzi col tempo solo questi eletti sapevano della loro esistenza.
Con l’avanzare dei millenni anche i capi iniziarono a credere al mondo e alla conoscenza fittizie che loro stessi avevano creati e si dimenticarono di quelle Porte. Questa sapienza diventò esoterica e solo poche stirpi di sciamani la conservarono trasmettendola ai loro allievi.
 
 
 
Gli antichi signori
Dove va dunque il mio flusso o il vostro?
Dove vada non è automatico, siamo noi in tutte le nostre esistenze a decidere il suo destino. Ma una voce lo chiama, ci chiama tutti alla casa da cui proveniamo e che non abbiamo mai conosciuto, mai in nessuna delle nostre esistenze.
E’ questa che ad es. i cristiani chiamano la casa del Padre…
 
In tempi remotissimi, quando la Terra ancora non esisteva, alcuni abitatori di un lontano mondo di luce, chiamati a volte dagli sciamani gli antichi signori, dopo un terribile conflitto di cui in questa realtà non potremmo mai capire nulla, dovettero fuggire dal loro mondo. Per mettersi in salvo approdarono sulla Terra e crearono la Vita per nascondersi dentro di essa. Più esattamente crearono il DNA, essi sono fin da allora nascosti dentro ogni forma vivente portatrice di DNA.
Gli antichi signori appaiono nell’Altra Realtà con l’aspetto di draghi o di rettili alati. Il loro Potere è affine a quello del Serpente, per questo il DNA che hanno creato ha forma di serpente arrotolato e per questo dinosauri e rettili furono tra le prime manifestazioni evolute della vita e questa forma è contenuta in tutte le forme complesse (ad es. quella parte di cervello detta rettiliana).
Gli antichi signori crearono anche l’illusione del tempo. Gli organismi viventi che loro crearono per celarsi in essi sono quelli che chiamiamo flussi di esistenze dove lo scorrere del tempo non esiste.
Ma per nascondersi meglio e impedire che le loro creature potessero tornare al Mondo di luce da cui erano fuggite, sbriciolarono la coscienza degli organismi viventi: ogni flusso allora invece di una coscienza unica ha una coscienza chiusa nell’unghia, una in ogni capello, una nel naso etc. E l’unghia non può rendersi conto dell’organismo nel suo insieme perché l’illusione del tempo glielo impedisce: l’unghia crede di venire dopo l’occhio destro, prima di un dato capello e così via.
Anche se però gli antichi signori dovettero fuggire dal loro mondo lontano, questo mondo, il popolo di questo mondo ci chiama, chiama tutte le forme viventi perché siamo tutti suoi figli.
 
 
 
 
Il Popolo delle Stelle
Il popolo di quel mondo lontano era chiamato dagli antichi, ad es. da coloro che edificarono la Porta del Sole sulle Ande, il popolo del Sole.
Essi sono infatti connessi al potere del Sole, come spiegherò in futuro. Ma non vengono certo dal Sole, provengono da molto più lontano. Per questo a me e a quelli del nostro tempo si presentano come popolo delle Stelle.
In altre delle nostre esistenze, ad es. future, questo nome potrebbe sembrare inadeguato e potremmo chiamarli popolo della Luce o anche questo un giorno non andrà più bene e loro si presenteranno in altro modo.
Quel che possiamo dire è che appaiono a noi come esseri molto luminosi.
 
Il popolo delle Stelle ha lasciato presso tutte le Porte del flusso delle “antenne” per trasmetterci un loro messaggio.
Quando entriamo nel Flusso, varcando le Porte, le antenne si svegliano e ci comunicano più o meno sempre la stessa cosa, molto semplice: che il Popolo delle Stelle ci chiama, che apparteniamo al loro mondo, dove ci aspettano.
Spesso dicono che vi verranno a prendere presto, di prepararci per il viaggio.
Ma il viaggio è del nostro flusso, non della nostra singola esistenza. E questo equivoco fa sì che spesso grandi gruppi di persone attendano invano l’avvento di un nuovo mondo che invece non arriva.
 
Nelle maggior parte dei casi sono solo sciamani e maestri a saper entrare nel Flusso e perciò il popolo delle Stelle si rivolge a loro e li invita a portare quante più persone con sé verso i mondi di luce.
Questo hanno cercato appunto di fare in ogni luogo e tempo maestri spirituali e capi religiosi.
Il ritorno ai mondi che sono la nostra casa di origine ma che non abbiamo mai visti è il paradiso dei cristiani e degli islamici. E’ l’uscita dalla ruota delle incarnazioni dei buddisti, ed è l’avvento del regno di Dio dei cristiani antichi e degli avventisti.
Gli antichi cristiani in particolare quando parlavano di risurrezione dei morti in cui i corpi si sarebbero trasfigurati si riferivano proprio, senza capirlo, al corpo “completo” del Flusso che entra nei mondi del popolo delle Stelle.
Oggi molti credono a civiltà extraterrestri che verranno a cambiare la nostra vita, anch’essi hanno ricevuto e interpretato in modo moderno l’appello del popolo delle Stelle.
Alcuni addirittura predicano che gli extraterestri verranno a prendere gli eletti su navi spaziali. Questa è il solito equivoco: il popolo delle Stelle verrà appunto a prenderci ma non nelle nostre singole esistenze, è il flusso che si imbarcherà con loro.
 
Poiché non tutti sono in grado di entrare nel Flusso o di entrarci senza perdersi, i maestri in ogni tempo hanno dato ai loro seguaci regole adatte per riuscire a dirigere il flusso verso il popolo delle Stelle. Queste regole cambiano a seconda del capo e dell’uditorio cui si rivolge, ma il fine è sempre lo stesso.
Molti ad es. hanno insegnato ai loro adepti a distaccarsi dai poteri terreni per aiutarli a dirigere il loro flusso verso le stelle. Ma questo non è in sé necessario né è adatto agli uomini moderni.
Poteva andar bene agli antichi che nella terra erano molto radicati ed erano fortemente assoggettati a questi poteri. I moderni però sono già molto distaccati dalla Madre Terra e far loro disprezzare le forze terrene e dei Mondi inferi li rende deboli e privi di radici, e il loro viaggio verso le Stelle diventa velleitario quando non isterico.
 
Oggi il popolo delle Stelle ha chiesto a me di portare molte persone verso di loro.
Da sciamano insegno a chi mi segue a diventare forte coi poteri della Terra e dei Mondi sotterranei per poi con questa forza volgere il proprio Flusso verso le Stelle. Perché, come insegnano gli Indiani d’America:
 
 
L’uomo è come un albero
che deve affondare le sue radici molto in profondità nella terra
per poter innalzare i suoi rami su su fino al Cielo.
Anche se gli antichi signori dall’aspetto di draghi dovettero fuggire dai loro mondi stellari, non dobbiamo considerarli nostri nemici di cui sbarazzarci: sono infatti stati proprio loro a crearci e portiamo in noi stessi la loro natura.
Se andiamo verso le Stelle, dentro di noi e con noi i draghi tornano a casa.
Se i poteri della Terra e dei Mondi sotterranei, possono renderci forti e darci la buona sorte, dirigere il nostro flusso verso le Stelle dà il senso della nostra vita e la felicità.
Perché nessuno è felice fin quando non torna a casa.

eco.jpgUmberto-Eco.jpgAntonio_e_Umberto_Eco.jpgumbertoeco1.jpgA che serve il professore?
Internet offre agli studenti molte più informazioni che la scuola. Ma poi c’è bisogno di qualcuno che li aiuti a cercare, filtrare e selezionare  Nella valanga di articoli sul bullismo nelle scuole ho letto di un episodio che proprio di bullismo non definirei ma al massimo d’impertinenza – e tuttavia si tratta di una impertinenza significativa. Dunque, si diceva che uno studente, per provocare un professore, gli avrebbe chiesto: “Scusi, ma nell’epoca d’Internet, Lei che cosa ci sta a fare?”.
Lo studente diceva una mezza verità, che tra l’altro persino i professori dicono da almeno vent’anni, e cioè che una volta la scuola doveva trasmettere certamente formazione ma anzitutto nozioni, dalle tabelline nelle elementari, alle notizie sulla capitale del Madagascar nelle medie, sino alla data della guerra dei trent’anni nel liceo. Con l’avvento, non dico di Internet, ma della televisione e persino della radio, e magari già con l’avvento del cinema, gran parte di queste nozioni venivano assorbite da ragazzi nel corso della vita extrascolastica.
Mio padre da piccolo non sapeva che Hiroshima fosse in Giappone, che esistesse Guadalcanal, aveva notizie imprecise di Dresda, e sapeva dell’India quello che gli raccontava Salgari. Io sin dai tempi della guerra queste cose le ho apprese dalla radio e dalle cartine sui quotidiani, mentre i miei figli hanno visto in televisione i fiordi norvegesi, il deserto di Gobi, come le api impollinano i fiori, com’era un Tyrannosaurus Rex; e infine un ragazzo d’oggi sa tutto sull’ozono, sui koala, sull’Iraq e sull’Afghanistan. Forse un ragazzo d’oggi non sa dire bene che cosa siano le staminali ma le ha sentite nominare, mentre ai miei tempi non ce lo diceva neppure la professoressa di scienze naturali. E allora che ci stanno a fare gli insegnanti?
Ho detto che quella dello studente di cui parlavo era solo una mezza verità, perché anzitutto l’insegnante oltre che informare deve formare. Quello che fa di una classe una buona classe non è che vi si apprendano date e dati ma che si stabilisca un dialogo continuo, un confronto di opinioni, una discussione su quanto si apprende a scuola e quanto avviene di fuori. Certo, che cosa accada in Iraq ce lo dice la televisione, ma perché qualcosa accada sempre lì, sin dai tempi della civiltà mesopotamica, e non in Groenlandia, lo può dire solo la scuola. E se qualcuno obiettasse che talora ce lo dicono persone anche autorevoli a ‘Porta a Porta’, è la scuola che deve discutere ‘Porta a Porta’. I mass media ci dicono tante e cose e ci trasmettono persino dei valori, ma la scuola dovrebbe saper discutere il modo in cui ce lo trasmettono, e valutare il tono e la forza delle argomentazioni che vengono svolte sulla carta stampata e in televisione. E poi c’è la verifica delle informazioni trasmesse dai media: per esempio, chi se non un insegnante può correggere le pronunce sbagliate di quell’inglese che ciascuno crede di imparare dalla televisione?
Ma lo studente non stava dicendo al professore che non aveva bisogno di lui perché erano ormai radio e televisione a dirgli dove stia Timbuctu o che si è discusso sulla fusione fredda, e cioè non gli stava dicendo che il suo ruolo era stato assunto da discorsi per così dire sciolti, che circolano in modo casuale e disordinato giorno per giorno sui vari media – e che se sappiamo molto sull’Iraq e poco sulla Siria dipende dalla buona o cattiva volontà di Bush. Lo studente stava dicendo che oggi esiste Internet, la Gran Madre di tutte le Enciclopedie, dove si trovano la Siria, la fusione fredda, la guerra dei trent’anni e la discussione infinita sul più alto dei numeri dispari. Gli stava dicendo che le informazioni che Internet gli mette a disposizione sono immensamente più ampie e spesso più approfondite di quelle di cui dispone il professore. E trascurava un punto importante: che Internet gli dice ‘quasi tutto’, salvo come cercare, filtrare, selezionare, accettare o rifiutare quelle informazioni.
A immagazzinare nuove informazioni, purché si abbia buona memoria, sono capaci tutti. Ma decidere quali vadano ricordate e quali no è arte sottile. Questo fa la differenza tra chi ha fatto un corso di studi regolari (anche male) e un autodidatta (anche se geniale).Il problema drammatico è certamente che forse neppure il professore sa insegnare l’arte della selezione, almeno non su ogni capitolo dello scibile. Ma almeno sa che dovrebbe saperlo; e se non sa dare istruzioni precise su come selezionare può fornire l’esempio di qualcuno che si sforza di paragonare e giudicare volta per volta quello che Internet gli mette a disposizione. E infine può mettere quotidianamente in scena lo sforzo per riorganizzare in sistema ciò che Internet gli trasmette in ordine alfabetico, dicendo che esistono Tamerlano e i Monocotiledoni ma non quale sia il rapporto sistematico tra queste due nozioni.
Il senso di questi rapporti può darlo solo la scuola, e se non sa farlo dovrà attrezzarsi per farlo. Altrimenti le tre I di Internet, Inglese e Impresa rimarranno soltanto la prima parte di un raglio d’asino che non sale in cielo.

Le radici dell’Europa
Oltre a quelle cristiane, che hanno una lobby potente, ci sono quelle giudaiche e quelle greco-romane. E come la mettiamo con l’eredità pagana e le influenze dell’Oriente? Commenta  Le bandiere dell’Unione Europea a StrasburgoSu questo argomento avevo già scritto una Bustina nel settembre 2003 ma non sono io che mi ripeto, è la vita. Mi viene in mente la storia di quel mio amico che un giorno rientra a casa, trova in studio il quotidiano che riceve in abbonamento, se lo legge con grande interesse dalla prima all’ultima pagina, e poi si accorge che era quello di cinque anni prima, riemerso per caso sulla scrivania. Da quel giorno ha disdetto l’abbonamento, ma non era colpa del quotidiano, era ed è (specie a casa nostra) la monotona ripetitività di certi dibattiti, crisi, omicidi, concussioni, scandali, polemiche, promesse e debiti. Basta leggere oggi articoli sul delitto di Cogne uguali a quelli di cinque anni fa, e chi ha la mia età è colpito dalle analogie impressionanti tra Vallettopoli e il caso Montesi (1953) – non la morte di Wilma ma le orge di Capocotta, una carriera politica distrutta, ricatti e l’ombra di una faida tra potenti.
Torniamo al dunque. Ritrovo sui giornali l’urgenza di mettere da qualche parte un richiamo alle radici cristiane dell’Europa. Rispetto al 2003 però è stato fatto un passo avanti, e proprio sulla linea di osservazioni che in molti avevamo fatto allora: e cioè che le radici dell’Europa sono non solo cristiane bensì giudaico-cristiane. A parte il fatto che Gesù non era vikingo, non si può dimenticare il ruolo che ha avuto la Bibbia nello sviluppo della civiltà europea (a proposito, ho recentemente aderito a una petizione perché la Bibbia venga studiata nelle scuole; non si tratta di un fatto religioso, è che non si vede perché dei giovani debbano conoscere Catullo e non Geremia, Priamo e non Salomone).
Tuttavia proprio il fatto che a scuola si studino Priamo e Catullo ci ricorda che l’Europa nasce su radici che non sono soltanto giudaico-cristiane ma anche greco-romane. A parte la storia dell’arte o la funzione dell’immaginario mitologico in tutta la poesia europea, senza Platone e Aristotele non ci sarebbe stata neppure la teologia cristiana, non c’è bisogno di ricordare la presenza del diritto romano nelle istituzioni europee, e il latino che si vorrebbe reintrodurre nella messa l’hanno inventato i pagani ed è diventato cristiano solo per diritto ereditario. Ma forse queste cose si dimenticano perché le radici cristiane hanno una lobby potentissima che le sostiene, mentre quelle greco-romane interessano solo qualche professore di liceo.
Naturalmente qualcuno potrebbe osservare che occorrerebbe citare anche l’influenza dei popoli germanici e la mitologia nordica (che investe persino le celebrazioni del Natale), ma la cosa è diventata patrimonio di neonazisti dalla testa rapata e quindi, se pur con rammarico, lasciamola stare.
Infine ci sarebbe da chiedersi perché le radici giudaico-cristiane caratterizzerebbero proprio l’Europa. Non caratterizzano anche le due Americhe, dal Canada all’Argentina, l’Australia e la Nuova Zelanda, l’Etiopia e l’Eritrea, l’Armenia, le Filippine? E quanto alle radici greco-romane, i modelli di Atene e di Roma erano ben presenti alla mente dei Padri della rivoluzione americana – e si pensi quanto la tradizione classica trionfi nelle architetture di Washington.
Sono allora proprio queste radici che rendono unica l’Europa come tale e non, per esempio, la compresenza di una pluralità di lingue e culture – caratteristica che manca ad altre civiltà cristiane come quelle extraeuropee? È proprio su questa pluralità che l’Europa si è un tempo sanguinosissimamente divisa, e ora ritrova criteri di convivenza e mutuo rispetto. Si potrebbe aggiungere il senso del giusto equilibrio tra sviluppo verso il futuro e culto del passato, che rende l’Europa così gelosa delle sue tradizioni e delle sue vestigia. È vero che questa coabitazione tra novità e tradizione è comune anche, per esempio, alla cultura giapponese, ma il Giappone moderno conserva solo il Giappone antico, mentre l’Europa conserva non solo le rovine greche e romane e le sue cattedrali cristiane (peraltro ricche di figure che provengono da bestiari orientali), ma anche l’Alhambra musulmana, sinagoghe e reperti pre-europei, da Altamira a Stonehenge.
(04 aprile 2007)E infine c’è un altro aspetto tipico della cultura europea: la curiosità per le altre culture e gli altri paesi, che è stata all’origine sia dei viaggi di Marco Polo che di mode discutibili come l’orientalismo – per non dire del gusto colonialista di ficcare il naso in casa d’altri. È vero che la curiosità (dico curiosità scientifica e non turistica) per i paesi lontani è stata anche caratteristica della civiltà islamica medievale, ma certamente non lo è di popoli cristiani di altri continenti. Una sera un consulente del Pentagono, a una cena nel corso di un congresso, mentre lo informavano sul pesce che stava mangiando, ha chiesto se il Mediterraneo fosse un lago salato. Nessun europeo colto domanderebbe mai a un americano se il Gran Lago Salato sia un mare.
Insomma, o di questa Europa mettiamo in luce tutte le radici e tutte le caratteristiche che la rendono unica, oppure non riusciamo a capire che cosa sia.

L’uomo come fine
Lo Stato uccide per educare gli altri, perché si impari che a uccidere si muore. Usa il condannato come messaggio, come mezzo. Per questo la pena di morte è un delitto  Non è che ce l’ho con Pannella, né con il governo che ha preso iniziative benemerite. Figuriamoci. Sono contro la pena di morte sin dalla nascita. È che è umiliante che si debba ancora andare a dire in giro che la pena di morte è una barbarie, e che si debba attendere, per fare scandalo, l’impiccagione di qualcuno che l’anima candida proprio non aveva, mentre si continua a mandare a morte gente non dico in Cina, perché si sa, sono barbari col codino, ma negli Stati Uniti. E consiglio di leggere l’ultimo libro di John Grisham, ‘Innocente’, edito da Mondadori, per trovare la storia vera e documentata di gente mandata nel braccio della morte (senza aver fatto nulla) da procuratori paranoici e giurie della Bible Belt – salvo che almeno negli Usa alla fine l’opinione pubblica riesce a far riaprire alcuni processi e a salvare dei poveretti dall’iniezione letale, mentre in Cina forse ancora no.
Ma non è finita con Saddam: intorno al delitto di Erba circolano voci, mormorii, ottativi appena soffocati, vorrei ma non posso, insomma una gran voglia di pena di morte.
Non simpatizzo per la pena di morte, ma non ̬ che io non sia crudele, anzi lo sono forse troppo. Io non avrei impiccato Eichmann: lo avrei chiuso in una cella dove per il resto della sua vita avrebbe dovuto vedere 24 ore su 24, in circuito chiuso, scene dai campi di sterminio Рe vi assicuro che anche per uno che non batte ciglio su individui gassificati basterebbero 24 ore su 24 di Cappella Sistina, per tutto il resto della sua vita, per costituire una pena ragguardevole.
Non avrei fatto uccidere Mussolini (se mi fossi trovato in circostanze in cui era possibile prendere decisioni meditate con la certezza che si sarebbe poi potuto attuarle): l’avrei chiuso a vita in una cella a due con Starace (attenzione proto, non dico con Storace, perché anche la crudeltà ha un limite), ore d’aria comprese.
Perché si può essere crudeli quanto si vuole ma si deve essere contro la pena di morte? Ricorderete le varie analisi che i semiotici e i sociologi avevano fatto ai tempi d’oro del terrorismo nostrano. Il terrorista non ammazzava Tobagi, Casalegno, Bachelet e persino Moro perché lo odiava, ma perché intendeva inviare un messaggio a fini di destabilizzazione. La vittima non era mirata. Hanno preso Moro perché probabilmente risultava più comodo, ma avrebbero potuto prendere, che so, Fanfani o Andreotti, e la cosa avrebbe funzionato lo stesso. E lo stesso hanno fatto i terroristi dell’undici settembre a New York. Non gli importava chi moriva (e in fondo avrebbero scambiato le due torri con l’Empire State Building, ma era più comodo raggiungere dal mare le due torri senza sbagliare il colpo): era importante mostrare che gli Stati Uniti erano vulnerabili.
Ora, uccidere un uomo solo per mandare un messaggio, vuole dire usare una creatura umana come mezzo invece che come fine. E non so se tutti i lettori hanno presente, ma questo contrasta non solo con ogni etica religiosa ma anche e soprattutto con l’etica laica. Un bel libro di saggi di Moravia era intitolato ‘L’uomo come fine’. Uccidere qualcuno perché lo odi, perché ti ha rubato la moglie o il marito, perché ti disprezza, perché ti disturba di notte, è ancora una forma di omicidio vorrei dire ‘onesto’ (onore ai coniugi di Erba) perché ammazzi quella persona proprio perché è quella. Ma uccidere un uomo per mandare un messaggio (usare una creatura umana, scegliendola quasi a caso, come telegramma) è Male.
Cosa fa la pena di morte? Mica lo Stato vuole uccidere qualcuno perché gli è antipatico. Mica lo uccide perché non commetta più crimini (basterebbe rinchiuderlo e buttare la chiave). Lo uccide per educare gli altri, perché si impari che a uccidere si muore: e quindi lo uccide usandolo come messaggio, ovvero come mezzo invece che come fine. Per questo la pena di morte è un delitto.
Per finire. Crederete mica che in una Bustina si dica quello che si vuole. Si dice quello che si deve dire in una pagina. Se uno ha da dire di più, deve censurarsi, se ha da dire di meno deve menarla sino a che chiude la pagina (chiedere anche alla mia co-vittima Scalfari).
Sulla pena di morte non ho altro da dire, ma devo riempire la pagina. Quindi dirò qualcosa sull’irritazione che mi provocano le varie notizie sul fatto che il Comune di X vuole intitolare una via Pico, noto fucilatore repubblichino, e il comune di Y vuole intitolare una piazza a Pallino, noto stalinista e trinariciuto, e non si finisce più di discutere. Siamo onesti: percorrendo nelle nostre città le vie Poerio, Minghetti, Ricasoli, Gustavo Modena e via dicendo, chi sa (tranne noi persone coltivate) chi siano? E dunque piantiamola. Si faccia una legge che stabilisca che non si possono intitolare vie, piazze, e altri luoghi pubblici a persone che non siano morte da almeno cento anni.
Se nel 2045 qualcuno intitolerà una via a Mussolini sarà come intitolarla a Cola di Rienzo. Chiedete a chi la percorre oggi chi era Cola di Rienzo.
 

1577954.jpg1561902.jpg1553394.jpg“Sfatiamo il mito del writing inteso come l’espressione di un disagio”. E’ convinto Giovanni Boccia Artieri, sociologo all’Università di Urbino, quando afferma che il fenomeno del writing, oggi, sembra aver assunto una connotazione differente da quella che aveva in origine. “Senza dubbio, è nato con modalità di marca semiotica del territorio, ma presto si è evoluto in qualcos’altro”.
La fase della ‘marcatura individuale’, secondo Boccia Artieri, si è chiusa molto velocemente. Si consideri il caso di Bologna: all’inizio, a essere presa di mira dai writer era soltanto la stazione. “Bande di ragazzi marcavano le loro zone di riferimento, quelle di periferia, dall’esterno, perché chi passava in treno le vedesse. Quella è l’espressione di un’identità individuale, dove scritte e immagini sono spesso irriconoscibili per chi è al di fuori del codice del writing”. 
Ma parlare di disagio è riduttivo: “Il disagio c’era, all’epoca del fascismo, con le scritte politiche che avevano un’identità ben precisa. E più tardi negli anni del terrorismo. La scritta che marca l’identità personale (‘Lisa ti amo…’), invece, è molto più recente e si sviluppa nei contesti dove i giovani fanno gruppo: nei bar, nei bagni della scuola, nei giardini pubblici o sugli alberi… e sono una tipica manifestazione adolescenziale”. Nel giro di pochi anni, però, i muri della città si sono riempiti tutti. “Il risultato è un flusso ininterrotto di imagini sovrapposte l’una all’altra, metafora, a guardar bene, del flusso mediale contemporaneo, fatto di sollecitazioni sonore, visive, anche audiovisive, in cui ognuno di noi si trova immerso”. Ecco allora il senso delle immagini viste dal treno, in movimento: attraverso il finestrino, appaiono come guardate alla tv. “Non sono però le scritte piccole dei bagni di scuola, ma quelle intersecate l’una con l’altra, senza soluzione di continuità“.

C’è stato il periodo di denuncia dell’imbrattamento, ma alla fine il messaggio è passato: “In verità, né il messaggio né le immagini: è passato piuttosto il tipo di costruzione visiva del flusso”. Infatti, “il writing è un salto, è il fatto di impossessarsi, da parte di gruppi che si pongono come marginali, del sistema del flusso visivo del sociale. Fare un murale senza scopi precisi, senza denunciare nulla, ma solo per esprimere un’identità, vuol dire partecipare alla costruzione pubblica del flusso visivo”.Inoltre, “il writing partecipa alla costruzione di una sensibilità contemporanea. Diventa esso stesso la costruzione di questo tipo di sensibilità. Non si può definire devianza, che è qualcosa che si pone al di fuori. Anzi, il definitiva, è comunicazione di massa, writing, in un fenomeno perfettamente calato nella società: “Fa parte dell’immaginario contemporaneo e i suoi contenuti sono in realtà un pretesto per dare vita alla forma. Il ispira l’arte contemporanea, con quel writing suo tipo di linguaggio (forme e immagini, colore, rotondità), e a sua volta riprende le forme di scrittura, di pittura, il ritmo tipici di spot, film, videogiochi”.
In fondo, anche quando si pongono al di fuori del sistema, i writer hanno in comune con il sistema stesso le armi con cui pretendono di combatterlo.

articolo3.jpgbackstage1.jpgfoto.jpgfoto10.jpgfoto13.jpgfoto14.jpgfoto15.jpgfoto21.jpgmacolin.jpgfotoA.jpgfoto9.jpgfoto22.jpgfoto2.jpg (F.to Bario)

benvenutialmuseo1.pdf   “Avevo solo voglia di sentirmi perso nella feriale assenza di questo luna park”
                                                                                                                            Michele Bitossi
       Prima di tutto occorre fissare un punto di partenza. E questo può essere dato dal critico e storico cinematografico Claude Beylie (1932-2001), che propone di inserire nel novero delle arti anche la radiotelevisione e il fumetto, rispettivamente come ottava e nona arte.

Alan e Frederic Le Diberder, nel loro libro  L’Universe des Jeux Vidéo, nel 1998, fanno un ulteriore passo in avanti  e dichiarano che i videogames possono essere considerati oggi, a pieno titolo, la decima arte. Come afferma Steven Poole  “most people are not yet so progressive, but videogames clearly have the potential to become an artform, even if there are not there yet” (Poole, 2001, pag.25). In Italia  Matteo Bittanti, docente di Teoria&Tecnica del Videogioco presso La Nuova Accademia delle Belle Arti  e Analisi degli Audiovisivi all’Università Cattolica di Milano, da anni si batte per una rivalutazione culturale di quello che, troppo superficialmente, viene etichettato come un passatempo o una semplice forma di intrattenimento periferica (ma una forma artistica non può divertire?).

Con un giro d’affari in costante crescita, l’industria dei videogames ha battuto nel 2001 quella della celluloide, producendo un fatturato mondiale stimato in 9,4 miliardi di dollari, contro i “soli” 8,3 racimolati da Hollywood. Le vendite di software in Europa e Stati Uniti sfonderanno il tetto dei diciassette miliardi di dollari entro il 2003. In altre parole, il fenomeno videoludico ha profondamente modificato i rituali di consumo di milioni di esseri umani, determinando nuove strategie di fruizione del tempo libero, tant’è vero che “the post-pub Playstation session is one of the joys of modern British life” (Poole 2001, pag. 17).

Il perfezionamento tecnologico e l’impiego di ingenti mezzi creativi hanno prodotto risultati che ormai non possono essere oscurati per pigrizia o malcelata ansia di difendere vecchi paradigmi, perciò ritengo offensivo parlarne ancora in termini di giochini o macchinette (per dirla alla Cacciari), a meno che riferendosi alla “Guernica” di Picasso o a “L’occhio del silenzio” di Max Ernst  uno dica semplicemente che è un  bel disegno (a proposito, in quelle paludi pietrificate e in quello stupefacente mondo metaforico che richiede una lettura non lineare, non si può leggere anche un prototipo degli scenari videoludici di oggi?). E’ bene infatti ricordare come fa Blue Lander in un articolo sulla rivista on-line Joystick 101 che “that there is no medium that is art in itself. It is what we do with the medium that makes it art.”.[…]

gemine muse.p222.jpggemine muse111.jpggemine muse.pdfGemine Muse 2007

Una serie di eventi animera’, per tre mesi circa, 24 citta’
italiane
coinvolgendo circa 140 artisti e 42 curatori. L’obiettivo e’
promuovere
la giovane arte e allo stesso tempo valorizzare e rivitalizzare il
patrimonio storico e culturale italiano.

Da nord a sud la quinta edizione di Gemine Muse presenta un variegato
“cartellone” tematico in cui alle opere d’arte
contemporanea, ispirate
ai capolavori del passato, si affiancano iniziative musicali, di design
e teatro, di scrittura e performance.

“La trama dell’offerta culturale urbana diventa il nuovo
spazio in cui
l’arte contemporanea cerca relazioni, nuovi linguaggi, senso. E
concorre
a rinnovare luoghi, spazi, richiamandosi alle funzioni fondative
dell’arte.
Da’ senso e riceve senso, in un rapporto dialettico e fecondo. In
una
Italia troppo volta a mirare il suo glorioso passato, Gemine Muse 2007
rompe il cerchio, allarga i confini, spinge le citta’, i suoi
attori.”
Ledo Prato – Segretario Generale CIDAC

“Un’operazione che vuole parlare a pubblici diversi cercando
di superare
il confine tra i linguaggi contemporanei e quelli del passato (…).
Gli
artisti leggono le citta’ e indagano le relazioni nascoste e
inconsuete
tra spazi, memorie, storia, attualita’.”
Luigi Ratclif – Segretario GAI

“Un atto della volonta’, un atto della costruzione, un atto
della
creativita’: ricomporre i frammenti, ripopolare l’orizzonte.
(…)
L’arte non salva, ma l’arte fabbrica coscienza e futuro. Almeno
quella
che conosco io.”
Maurizio Maggiani

Progetto promosso da GAI – Associazione per il Circuito dei Giovani
Artisti Italiani e CIDAC – Associazione tra le Citta’ d’Arte e
Cultura,
in collaborazione con DARC – Direzione Generale per l’Architettura
e
l’Arte Contemporanee del Ministero per i Beni e le Attivita’
Culturali.
Main Sponsor SEAT Pagine Gialle e UniCredit Private Banking.

testi dal catalogo e tutti gli eventi, i musei e gli spazi, i curatori
e gli artisti che partecipano citta’ per citta’

 http://undo.net/Pressrelease/pdf/focus65.PDF

segolene-P4.jpgsegolene-P4.jpgsegolene-P4.jpgA la Réunion, la gauche dame “royalement” le pion à la droite
À La Réunion, les résultats du 1er tour de la présidentielle de 2007 confirment la hiérarchie électorale mise en exergue à plusieurs reprises par les sondages réalisés par Ipsos : Ségolène Royal (PS) largement en tête devant Nicolas Sarkozy (UMP), François Bayrou (UDF) et… Jean-Marie Le Pen (FN). Le grand perdant de cette consultation reste Paul Vergès, qui n’était pas candidat certes, mais dont la consigne en faveur de Marie-George Buffet (PCF) a totalement “foiré”, y compris dans les trois communes communistes.

La bonne nouvelle de la journée, c’est incontestablement le taux record de participation, la ruée vers les urnes ou le sursaut démocratique. C’est bon signe. Les électeurs se réapproprient la chose politique. Cette fois-ci, ils n’ont pas voulu se faire voler le débat comme en avril 2002. Les Français ont bel et bien tourné la page. 73 % de participation en métropole. Un taux historique. Du jamais vu depuis la première présidentielle de la Ve République en 1965. Localement, on est très loin des 43 % d’abstention du 21 avril 2002. Plus de 72 % de Réunionnais ont accompli leur devoir civique. En dépit de cette participation importante, La Réunion s’est une fois de plus illustrée par un vote à contre-courant. Cette “tradition” électorale a en effet été respectée. En 1995, Lionel Jospin l’avait emporté ici, alors qu’en métropole, il avait terminé 3e derrière Jacques Chirac et Jean-Marie Le Pen. Cinq ans plus tard, localement, Ségolène Royal (PS) arrive largement en tête devant Nicolas Sarkozy. Or, dans l’hexagone, le candidat de l’UMP la devance de cinq points. Dans le département, Ségolène Royal fait mieux que Lionel Jospin en 2002. Et en plus elle le venge en se qualifiant pour le deuxième tour. Avec 46,23 % de voix, à La Réunion, la candidate socialiste bat tous les records et réussi même pour une fois l’exploit de peindre en rose la petite commune de la Plaine-des-Palmistes. Du jamais vu dans cette localité de l’Est pourtant profondément enracinée à droite. Carrément historique ! Marco Boyer en perd son latin. Ségolène Royal l’emporte dans quasiment toutes les communes. Rappelons que 19 de ces localités sont pourtant tenues par des maires de droite ou divers-droite depuis la “vague bleue” de 2001.

BIPOLARISATION

Les mesures sociales (SMIC à 1 500 euros, augmentation de 5 % des petites retraites pendant 5 ans…) de la candidate socialiste ont manifestement eu beaucoup plus de portée que les projets économiques de Nicolas Sarkozy, notamment dans les quartiers populaires. La droite locale va devoir reprendre son bâton de pèlerin et repartir mouiller casaque sur le terrain si elle veut remonter la pente en vue des législatives de juin prochain. Dans les cinq circonscriptions de l’île, la gauche lui dame “royalement” le pion. Les résultats reflètent à bien des égards la physionomie de la campagne locale où le PS uni est resté fidèle à sa ligne de conduite en faisant bloc derrière sa candidate et en appelant au “vote utile” dès le premier tour. À droite, les “tâtonnements” ou autres déchirements sur la place publique ajoutés à une certaine mollesse n’ont pas avantagé le représentant nationalde l’UMP. Quant à la stratégie brouillonne de Paul Vergès, voulant au départ faire de la plateforme de l’alliance un enjeu présidentiel, puis appelant au dernier moment à soutenir la candidate du PCF Marie-George Buffet, déstabilisant ainsi les militants communistes, on peut dire qu’elle n’a pas du tout fonctionné. Avec 2, 97 % des suffrages, elle réalise un score lamentable. Paul Vergès n’a pas réussi à transformer le vote-sanction (anti-PS) en vote d’adhésion. Les militants communistes ne l’ont pas suivi. Le spectaculaire “raté” de la consigne de vote Buffet marque aussi quelque part la fin de l’ère Vergès, qui n’a manifestement plus la main-mise sur la base communiste. L’électorat a rejeté par la même occasion le “z’embrocal” de l’Alliance pour en revenir à une vraie bipolarisation de la vie politique en choisissant un duel classique gauche-droite et notamment les candidats dits “légitimes” des grandes écuries, même l’UDF François Bayrou (13,28 %) réalise pour la première fois un score à deux chiffres, porteur d’espoir pour les centristes.

Yves Mont-Rouge

1er tour en 2002

Inscrits : 436 885 Votants : 245 455 (53,35%) Suffrages exprimés : 233 155 Les candidats : Bruno Mégret : 2 019 (0,87%), Corinne Lepage : 2 228 (0,96%), Daniel Gluckstein : 510 (0,22%), François Bayrou : 5 814 (2,49%), Jacques Chirac : 86 488 (37,09%), Jean-Marie Le Pen : 8 884 (3,81%), Christiane Taubira : 4 883 (2,09%), Jean Saint-Josse : 1 148 (0,49%), Noël Mamère : 4 980 (2,14%), Lionel Jospin : 90 865 (38,97%), Christine Boutin : 2 133 (0,91%), Robert Hue : 2 890 (1,24%), Jean-Pierre Chevènement : 7 408 (3,18%), Alain Madelin : 2 450 (1,05%), Arlette Laguiller : 5 955 (2,55%) et Olivier Besancenot : 4 500 (1,93%)

1er tour en 1995

Incrits : 371 633 Votants : 237 140 (63,81%) Exprimés : 226 764 Les candidats : Philippe de Villiers : 5 060 (2,23%), Jean-Marie Le Pen : 6 554 (2,89%), Jacques Chirac : 79 765 (35,18%), Arlette Laguiller : 5 491 (2,42%), Jacques Cheminade : 2 142 (0,94%), Lionel Jospin : 68 839 (30,36%), Dominique Voynet : 4 322 (1,91%), Edouard Balladur : 30 684 (13,53%) et Robert Hue : 23 907 (10,54%)

 

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e_45_4778.jpge_45_4778.jpge_45_4778.jpg
Enrico Della Torre
“Percorsi”, opere 1997/2007

 

La galleria Lorenzelli Arte è lieta di presentare una nuova personale di Enrico Della Torre intitolata: “Percorsi”, opere 1997/2007.
L’inaugurazione è fissata per giovedì 3 maggio 2007, a partire dalle ore 18,30.
A più di dieci anni dall’ultima personale di Enrico Della Torre da Lorenzelli Arte, verranno esposti quaranta dipinti scelti realizzati tra il 1997 e il 2007. La mostra è accompagnata in catalogo dal testo critico di Francesco Tedeschi, Per Enrico Della Torre 2000-2007.

I dipinti che caratterizzano questa fase decennale, anche se in maggioranza datati al 2005 e al 2006, denotano una nuova sintesi astratta, un’intonazione mirata ai nitidi colori che si fa interpretazione personale di forme e strutture.

Le opere di Della Torre appartenenti a questo periodo, da sempre inscritte nella lunga tradizione formale dell’astrazione geometrica, presentano grafie architettoniche meno perentorie rispetto al passato. Questo perché, come scrive Francesco Tedeschi in catalogo, “l’interiorità del sentire individuale incontra l’interiorità della forma stessa, che si costruisce nel suo farsi e trova ragione del suo essere nel suo stato aperto e provvisorio”. “Figure di parvenza architettonica o strutturale”, scrive ancora Tedeschi, “sempre sfuggenti, irregolari, inclinate”: sono la traduzione formale tradotta in pittura di questo nuovo sentire di Della Torre, dove “la loro natura perfetta non è la rivelazione di un limite, ma segno del grado di spontaneità con cui il tempo, la natura, il cammino percorso, determinano l’accadere”.

Il nuovo corso di Della Torre, infatti, si apre oggi ad una sorta di relatività formale, che è pura libertà delle forme. Forme che ammettono nuovi movimenti, ulteriori suggestioni e variazioni.

“Ciascuna opera di Della Torre esprime una dimensione di incertezza e ambiguità, che trasforma ogni possibile definizione in un dubbio, ogni costruzione in un frammento o in un momento di temporanea aggregazione all’interno di una continua instabilità, dove il fluire […] prevale sull’essere”.

E’ il trionfo, conclude ancora Tedeschi, del “tempo della vita su quello assoluto”, dove le opere recenti di Della Torre ci appaiono, in tutta la loro chiarezza, “lontano da ogni astratta logica di razionalità o di spiritualità metafisiche”.
La mostra si può visitare fino al 9 giugno 2007.
Disponibile in galleria il catalogo della mostra, Lorenzelli Arte #120, italiano/inglese/tedesco, con testo critico di Francesco Tedeschi, immagini a colori delle opere esposte e apparati bio-bibliografici.
Per informazioni e richiesta di materiale: Sara Zolla, Lorenzelli Arte: 02 201914 – sarazolla@lorenzelliarte.com
Nota biografica. Enrico Della Torre è nato a Pizzighettone il 26 giugno 1931. Vive e lavora Tra Milano e Teglio, in Valtellina. Tra le sue mostre più importanti si ricordano le antologiche alla Neue Pinakothek di Monaco di Baviera, al PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea) di Milano, a Palazzo Magnani di Reggio Emilia e al Museo di Villa dei Cedri di Bellinzona. Da Lorenzelli Arte Della Torre ha esposto per la prima volta nel 1990, presentato in catalogo da Flaminio Gualdoni, e ancora nel 1996: “Sentieri e proiezioni, opere 1991/1996”, con testo in catalogo di Walter Guadagnini.

 

Lorenzelli Arte
Corso Buenos Aires, 2
20124 Milano
tel. 02 201914
fax 02 29401316

libano fes.jpglibano festa1.jpglibano festa1.jpglibano fes.jpg
Cari tutti
a seguire il nostro piccolo report di ritorno dal Libano, dove
8 mesi dopo la guerra, nel tempo silenzioso e faticoso della
ricostruzione,
la creatività ancora incanta i cuori e rende tutti felici per un
attimo.
grazie per l’attenzione Cam e Joerg – deposito dei segni

Report: Janana Spring Festival Libano.
La pedagogia teatrale, la didattica artistica e la creatività per
sostenere la vita nei campi profughi palestinesi in Libano

Siamo rientrati da pochi giorni dal Libano dove in collaborazione con
il centro Al Jana di Beirut, abbiamo partecipando sia come formatori e
sia come artisti al Janana Spring Festival Itinerante di Primavera.

Il Janana Spring Festival, giunto alla sua sesta edizione, è parte di
un programma di promozione alla lettura e alla scolarizzazione e si
svolge su tutto il territorio libanese, coinvolge centinaia di bambini
e 57 biblioteche in network, con la collaborazione dei centri giovanili
delle comunità palestinesi, si svolge durante la settimana di vacanze
dalla scuola, che coincide con le feste della Pasqua, offrendo
appuntamenti e avvenimenti di vario genere. Peculiarità del Festival è
quella di vedere in scena non solo gli artisti, ma anche i giovani
delle comunità locali, che presentano lavori creativi ed espressivi
preparati proprio per il festival.
Il Janana Spring Festival ha come sua peculiarità quella di annunciarsi
nei luoghi con un imbonitore speciale: “un autobus” da cui, come le
carovane dei commedianti dell’arte, scende una chiassosa quanto allegra
compagnia che dispensa arte, clownerie, teatro di strada e
divertimento.
Tappe del festival sono state: Dbayeh Camp (Beirut), Mar Elias Camp
(Beirut), Wavel Camp (Bekaa), Saida (Khan El-Efranj), Tripoli,
El-Qassmyeh Camp e Canaa, dove siamo arrivati portando colori e
scompiglio, attraversando in parata i campi e travolgendo creativamente
per alcune ore il trascorrere inerte del tempo immoto e sconsolato di
questi luoghi.
Siamo stati molto colpiti dagli sguardi dei bambini che ci seguivano
parata, dove sorpresa e curiosità si mescolavano ai sorrisi,
maraviglia, stupore, timore, gioia, ma anche a reazioni che evincevano
chiaramente che per quasi tutti i bambini dei campi profughi, questa
occasione, era la loro prima volta a contatto con un trampoliere e con
la maschera di Pulcinella, o per meglio dire con personaggi-maschera in
carne e ossa.
La settimana precedente il Festival abbiamo svolto due workshop sulle
tecniche di teatro di strada presso i Campi di Mar Elias a Beirut e
quello di Baddawi vicino Tripoli al quale hanno partecipato anche
giovani del campo di Naher Al Bared.
Sono stati ospiti del Festival insieme a noi del Deposito Dei Segni
altri artisti italiani: il poeta Edvino Ugolini, portavoce della Rete
degli Artisti contro le guerre, il musicista Piero Purini, i clowns
giocolieri de Il Duende; i clowns acrobati svedesi di Airforce Two;
attori e musicisti palestinesi e libanesi: Samir Hadad, Tarek
Rachacha, Fadi Dabaja.
Il Festival ogni anno è atteso e vissuto con grande gioia dalle
comunità profughe palestinesi, poiché esso è occasione di svago e
divertimento per centinaia di migliaia di persone che vivono una realtà
quotidiana molto difficile e deprivante, poiché le condizioni
strutturali e sociali dei campi profughi palestinesi sono molto
dolorose. Si calcola che siano circa 400.000 i profughi palestinesi
rifugiati in Libano, giunti ormai alla 5/6 generazione di esuli, dal
1948 quando furono cacciati dalla loro terra, la Palestina; dislocati
in 13 campi profughi, quelli ufficiali, carenti non solo di ambulatori
sanitari, asili nido, centri di socializzazione, scuole…, ma con la
presenza costante di con fatiscenti impianti volanti elettricid e
idrici, condutture rotte, perdite di qualunque genere che si riversano
sulle strade; campi molto poveri, dove si calcola che per molti la
soglia di povertà si attesta mediamente intorno al 65%, considerando
anche che una legge molto restrittiva, abolita nel giugno 2005, vietava
lo svolgimento di circa 70 mestieri, aggravando tragicamente la
persistente condizione di disoccupazione dei rifugiati.
Di grande importanza sono quindi tutte le attività culturali che le
associazioni, come il Centro Al Jana di Beirut dell’ARCPA: Arab
Resource Center For Popular Arts, svolgono all’interno dei campi
per
contrastare creativamente rischi di ulteriore degrado, violenza e
disagio sociale.
 

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